Fare gol non serve a niente by Luca Pisapia

Fare gol non serve a niente by Luca Pisapia

autore:Luca Pisapia [Pisapia, Luca]
La lingua: ita
Format: epub
editore: add
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


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Siamo ormai entrati in quella che il sociologo Manuel Castellis chiama la società dell’informazione. Le avvisaglie della caduta del sistema fordista che si erano intraviste sotto il cielo incendiato dalle molotov negli anni Settanta ora sono sotto gli occhi di tutti. L’intelligenza collettiva e il lavoro cognitivo e immateriale di cui aveva scritto Karl Marx nei Grundrisse è il nuovo paradigma biopolitico della società occidentali. E l’economia dei flussi finanziari sta definitivamente sostituendo quella della produzione di beni di consumo. A guidare questo fiume di denaro è appunto il bene immateriale per eccellenza: l’informazione, il cuore di tenebra del terzo millennio. E l’informazione governa attraverso i suoi due agenti Smith replicabili all’infinito, sempre uguali sotto le più diverse e mentite spoglie: le telecomunicazioni e l’informatica. Le reti su cui corrono i flussi immateriali del nuovo capitale. Nella società dell’informazione tutto cambia, e anche il pallone muta di paradigma, non ha più solamente una funzione di disciplina e poi di controllo sociale: produce utili. Nel mondo del calcio entrano ovunque nuovi imprenditori e i primi fondi d’investimento, il cui unico scopo è il guadagno. Non è che prima di loro chi governava il calcio avesse intenzioni filantropiche, aveva semplicemente necessità di disciplinare il tempo libero dei suoi dipendenti, ottenere pubblicità, migliorare la propria visibilità nel mondo politico ed economico, guadagnare voti nelle elezioni locali o nazionali, agire sui sogni e sui bisogni della popolazione per indirizzarli e meglio governarli. Adesso arriva anche il denaro.

Le televisioni cominciano a incidere per oltre il 60% sul fatturato dei grandi club che partecipano alla Champions League e quindi si possono permettere di cambiare il modo di fruire il calcio. E per farlo devono cambiare anche il modo di giocarlo. Così agisce il potere biopolitico. Come cambia il pubblico negli stadi, cambia infatti anche il modo di giocare a calcio. Lo abbiamo visto prima analizzando il pastiche postmoderno del Milan di Arrigo Sacchi, un gioco ossessivo e asfissiante, perfetto per riempire con la palla e con il maggior numero possibile di giocatori lo schermo televisivo. La televisione ha paura del vuoto. Dopo la finale della Coppa Intercontinentale del 1989 tra il Milan di Sacchi e l’Atlético de Medellín di Maturana, che segna lo scarto decisivo nello sguardo dello spettatore, le riprese si fanno ancora più strette. Le focali si accorciano e la telecamera si sposta sempre più verso il basso, in un ossessivo close up per meglio inquadrare gli sponsor sulle maglie e sui cartelloni pubblicitari posti a bordo campo. E anche il tempo deve essere accorciato. La televisione ha paura dei tempi morti. Nasce prima la cultura e poi la dittatura degli highlights, dei momenti salienti. Tutto è ridotto nello spazio e nel tempo del nuovo calcio, tutto è concentrato, perché tutto deve essere vendibile, consumabile e spendibile.

Per parafrasare ancora il filosofo francese Gilles Deleuze, con l’avvento della televisione termina il calcio-movimento, in cui il fluire temporale della partita era continuo e ininterrotto, come nel cinema classico, e irrompe sulla scena un nuovo



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