Non è il caso. La vita secondo Edipo by Nicola Fano

autore:Nicola Fano [Fano, Nicola]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Treccani
pubblicato: 2024-07-30T22:00:00+00:00

Naturalmente, la lettera cambierà la vita di Tomáš. Cancellata con il sangue l’illusione delle riforme di Dubček, il medico perderà il lavoro e via via sarà allontanato da ogni incarico pubblico: gli resterà un’aura da oppositore che egli, per altro, non riconosce a sé stesso. Perché, afferma, nella lettera rifletteva su un tema generale, non in modo specifico del comunismo.

Verso la fine del romanzo, interviene il figlio del protagonista: un ragazzo con il quale Tomáš non ha mai avuto grandi rapporti. Anzi, forse proprio questa circostanza ha fatto sì che il ragazzo vivesse il padre come un mito irraggiungibile. E, infatti, lo contatta per chiedergli di sottoscrivere un appello in favore della dissidenza. Il vero nodo della questione, secondo il giovane, è: “Noi non sappiamo cosa vuol dire sentirsi colpevoli”. Tomáš è molto combattuto, ma alla fine, per non confondere la responsabilità che si è assunto con quella sua vecchia lettera con un atto politico contingente, non firmerà l’appello e perderà la stima del figlio (compiendo una scelta simile a quella di Edipo con Polinice a Colono).

Ebbene, è proprio quella la denuncia più bruciante di Sofocle espressa tramite l’esempio di Edipo: gli esseri umani non sanno ammettere le proprie colpe. Siamo ciechi davvero, in questo senso, incapaci di porre luce sulla realtà, finché non ammettiamo le nostre responsabilità nella conduzione della nostra e delle altrui esistenze.

Un insegnamento molto attuale, mi pare: la società occidentale attuale vive, principalmente, di un costante scarico di responsabilità. È sempre colpa di qualcun altro e la continua edificazione di nemici sempre più eterei e indefiniti serve proprio a questo: a nascondere la nostra incapacità di sentirci responsabili, colpevoli.

***

Colpa e responsabilità sono due termini che chiamano in causa un valore ancora più grande: la giustizia. Su questo tema, la posizione dei greci è semplice e chiara: la giustizia degli dèi da sola non basta, deve inverarsi negli uomini. Solo nel caso di una sovrapposizione tra norme assolute (degli dèi) e comportamenti correnti (degli uomini) si può parlare di vera giustizia. Non alla sola magistratura divina (in nome di un generico concetto di giustizia superiore) si può affidare l’etica pubblica: perché le regole determinino corretti comportamenti servono, poi, le azioni concrete degli uomini, che siano portatrici di bene o di male, di valori positivi o negativi. Saranno queste a dare un senso concreto alla giustizia. Tale passaggio dal precetto astratto alla realtà dà una sostanza molto terrena a un concetto, al contrario, sovente usato come un’arma nella sua accezione più generale ed effimera. Nei millenni, spesso, la giustizia ha rappresentato – anche – uno strumento di oppressione: per i greci, invece, era il luogo più alto dell’etica pubblica, il punto di contatto effettivo tra gli dèi e gli uomini. Per i greci, la giustizia è, sì, quella praticata dagli uomini e dalle società, ma perché sia tale deve essere riconosciuta tanto da chi la applica quanto da chi la subisce.

Questa tematica, nel ciclo tebano, si incardina sulla parabola di Creonte. Egli esprime, in linea puramente teorica, la “giustizia degli uomini”: è colui che fa le leggi.

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