Dove la luce by Carmen Pellegrino

Dove la luce by Carmen Pellegrino

autore:Carmen Pellegrino [Pellegrino, Carmen]
La lingua: ita
Format: epub
editore: La nave di Teseo
pubblicato: 2024-05-15T00:00:00+00:00


Postiglione, estate 1991

Un’estate, avevo appena finito le medie, lessi una lettera in cui Seneca scriveva a Lucilio che non il denaro, non la toga pretesta, non la fama e neppure la bellezza e la forza possono rendere felici, ma lo spirito – retto, onesto, grande – o come altro puoi chiamarlo, se non addirittura un dio che dimora nel corpo umano, nel corpo di chiunque, cavaliere, liberto o schiavo, che sono solo nomi dati dall’ambizione o dall’ingiustizia. Era il tempo dei primi sbarchi di albanesi sulle coste italiane – migliaia di migranti in fuga, migliaia di disperati, assetati, disidratati, tra le mani soltanto la spaventosa prospettiva della propria mortalità. E in quel tempo io leggevo dei nomi dati dall’ambizione e dall’ingiustizia, leggevo del dio che dimora nel corpo umano. In tutti i corpi umani? Seneca offriva la prima mediazione linguistica alla mia esperienza confusa. La realtà esiste, mi dicevo, e io ne avvertivo il peso. Indizi appartenenti alle visioni di quei giorni puntavano in direzione di questa verità profonda: in ogni essere umano dimora un dio. Seneca non si riferiva non a un dio trascendente, ma a questo arrivai in seguito. In quei giorni mi colpì invece l’immagine di un dio che dimora in ogni corpo umano – e perché non anche nelle piccole persone, gatti, cani, allodole ondose? –, e se così era, perché vedevo tanta sofferenza in più rispetto alla capacità di sopportazione dei semplici mortali?

Cominciava a definirsi in me il sentimento di un’appartenenza: quelle immagini mi riguardavano anche se ero al sicuro nella mia comoda casa e non in mezzo al mare, sotto il sole che fa combustione con la pelle; rinfrescata, io, dai venticelli di montagna, tutto uno stormire di frasche, uccelletti, cicale scervellate. Io, creatura nata per caso tra gli agi, inappetente e piagnucoloso grumo di carne a cui davano il ferro in boccetta per l’anemia e il Travelgum per la gita scolastica a Capri, proprio io venivo chiamata in causa: quelle immagini di disperazione mi interrogavano e non sapevo cosa rispondere.

Cosa c’era oltre il giardino confuso di mio padre, oltre le siepi da cui si lanciavano le vespe? Mi fischiavano le orecchie nell’assoluta assenza di suoni, calata com’ero senza merito in un paesaggio accogliente, modellato a colpi di pollice. Cosa c’era in quella umanità esule, cosa se non tanti dèi quante erano le teste che non riuscivo nemmeno a contare? Uno scatenato rigoglio di teste, con una specie di sofferenza ostruttiva che impediva loro di parlare. Tante teste disposte a morire, come se quell’ultimo giorno fosse la vita intera, tutta la vita che ci vuole per imparare a morire.

Gli dei ci creano molte sorprese, disse una volta Euripide. Per quanto mi riguarda, anche se non mi sono fermata al giardino di mio padre e anzi, spesso, sono entrata nei giardini degli altri e ancora di più nei giardini di nessuno, dove ogni cosa significa qualcos’altro e un verme non è solo un verme ma un disabitante segreto, altrettanto spesso ho creduto che fosse più semplice lasciare le cose a una questione sottintesa, senza nome.



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