Il corsivo è mio by Il corsivo è mio

Il corsivo è mio by Il corsivo è mio

autore:Il corsivo è mio [LDB]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Adelphi
pubblicato: 2019-05-13T16:00:00+00:00


5 aprile 1928. Versailles

«Ieri mattina al caffè ho letto la lettera di Gal’perin e, senza passare da casa, sono andato a Parigi. Ho fatto barba e capelli e sono andato da Gal’perin. Proprio la sua lettera mi ha convinto a non pubblicare la mia risposta all’inchiesta.67 Ho incantato e affascinato il vecchietto. Ora siamo diventati amici per l’eternità (spero tuttavia che ci arrivi prima lui di me). Ecco cosa abbiamo deciso:

«Gal’perin scriverà a Rolland di mandargli la lettera di Gor’kij.68 Gal’perin pubblicherà questa lettera non su “L’Avenir”, che non ha né lettori, né redattori, né diffusione, ma sul “Candide”. E lì, accanto: il mio lungo ed esauriente articolo, con l’appendice, che scriverò appositamente. “Candide” e non “L’Avenir”, l’articolo e non la risposta all’inchiesta, insomma schiacciare Gor’kij per incarico di una redazione francese non è come balbettare insieme agli altri, rispondendo a un’inchiesta superata. Per compiere l’opera esigerò un onorario e in quello stesso giorno pubblicherò tutto (Gor’kij e me) su “Vozroždenie”.

«Vedi come sono intelligente. Ma la seconda lettera di Gor’kij, la mia futura risposta e “Candide” sono cose segretissime. Non fiatare con nessuno».

Gal’perin-Kaminskij aveva evidentemente cominciato l’inchiesta su «L’Avenir», domandando ai lettori cosa pensassero della lettera di Gor’kij a Rolland. Chodasevič cercò di passare questo interrogativo ai settimanali francesi di grande diffusione, ritenendo che «L’Avenir», con cui Gal’perin aveva dei legami, non fosse una rivista abbastanza autorevole per una faccenda così seria.

È necessario aggiungere che quel progetto andò in fumo?

I grandi di questo mondo, cioè del nostro mondo, non totalitario, in cui noi vivevamo e al quale eravamo legati, come André Gide, affermarono per anni i pregi del regime del grande Stalin, finché non andarono in URSS e di colpo aprirono gli occhi; oppure come Bernard Shaw, affermarono, andarono eppure non aprirono gli occhi. In compagnia di stupidi aristocratici inglesi, ben disposti come lui verso il Cambise del Cremlino, Shaw nel 1931 andò a inchinarsi davanti a Stalin. Ritornato in Inghilterra, scrisse (spacciandosi per un vecchio buffone) un libro sulla Russia (The Rationalisation of Russia, ripubblicato tra l’altro nel 1964), dove dichiarava «a Roma e al mondo» che in Unione Sovietica «qualsiasi persecuzione dell’intelligencija era finita da tempo».

Eh già, il giornalista di Chicago, trasformatosi in autore di romanzi, era partito (in terza classe naturalmente) per la riviera spagnola, e il pittore svedese viveva in albergo, pranzava nelle trattorie e per il suo lavoro aveva affittato uno studio (probabilmente senza riscaldamento e con il gabinetto sulle scale). Il virtuoso della sega arrivato dai Caraibi offriva alla sua amica le ostriche e poi insieme andavano alle corse ippiche. Noi non potevamo fare nulla di tutto questo. Non andavamo da nessuna parte. Avevamo un solo tetto. Sul fornello c’era una sola pentola.

Hemingway nelle sue memorie racconta della sua vita a Parigi in quegli anni, della povertà, dei soldi che per i suoi primi racconti arrivavano quando capitava, dei sessanta franchi al giorno che davano la possibilità di vivere a due persone, modestamente, ma in modo passabile (se si amavano, se non si amavano



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