Juan Belmonte matador de toros by Chaves Nogales Manuel
autore:Chaves Nogales, Manuel [Chaves Nogales, Manuel]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Neri Pozza
pubblicato: 2014-12-11T23:00:00+00:00
New York
Quando entrammo nel porto di New York, rimasi a osservare dalla tolda lo sbarco di centinaia di emigranti che avevano fatto il viaggio nascosti nell’enorme pancia dell’Imperator. Era un gregge di gente miserabile, per la maggior parte ebrei e polacchi che si stringevano sulle passerelle, sorvegliati dalla polizia come fossero bestiame da rinchiudere dietro una palizzata. Quegli sventurati si facevano strada lentamente, carichi dei loro miseri fardelli e trascinandosi con mogli e figli fino al posto dove gli agenti dell’ammissione li esaminavano rapidamente, come i veterinari esaminano i capi destinati al mattatoio, e senza tanti complimenti accettavano gli uni e rifiutavano gli altri. I policemen, alti e forti, separavano violentemente i genitori dai figli e le mogli dai mariti, insensibili alle grida e alle proteste di quegli infelici, i cui lamenti in quella confusione erano deboli quanto i belati di pecore accerchiate dai mastini.
Non so perché, ma quello spettacolo mi sconcertò profondamente. Guardai con rabbia i giganteschi grattacieli che proiettavano le loro ombre mostruose sopra il porto ed entrai a New York con una strana sensazione di paura. Non avevo mai visto trattare la gente in quel modo. Mi terrorizzava l’idea di vedermi umiliare così. Sbarcai stringendo nervosamente in tasca la pistola che mi ero comprato a Parigi.
Andai in giro per New York con la pistola in tasca e una camera fotografica a tracolla. Avevo visto che tutti i turisti portavano la macchina fotografica e non volevo essere da meno. Incontrai un pittoresco sivigliano che viveva arraggiandosi un po’ come capitava; era un tizio audace e gentile, e mi fece da cicerone. Andai con lui una notte nel quartiere cinese, dove annusai le fumerie di oppio. Nessuno mi ha mai guardato con occhi cattivi come quei cinesi tristi e sporchi quando io e il mio compaesano ci fermavamo scherzando davanti alla porta delle loro immonde abitazioni. All’alba ci cacciò via da lì con ampi gesti una ronda della polizia.
New York non mi piacque. Troppo grande e troppo diversa. Quei baratri profondi non erano strade, quelle formichine frettolose non erano uomini, quell’ammasso di ferri e cemento, ponti e grattacieli non era una città. Un uomo cammina per una strada di Siviglia pestando forte i piedi perché arrivi sino in fondo ai patios l’eco dei suoi passi sonori, guardando senza dover alzare la testa i balconi dai quali sa di essere guardato, riempiendo la strada con la sua voce grave e ben intonata quando saluta un amico che incrocia: «Arrivederci, Rafaé!» È una gioia vederlo ed è un orgoglio essere un uomo e passare per una strada come quella e vivere in una citta così.
Ma qui a New York, dove un uomo non è nessuno e una strada è un numero, come si può vivere?
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