La lupa e il leone by Acidini Cristina

La lupa e il leone by Acidini Cristina

autore:Acidini, Cristina
La lingua: ita
Format: epub
editore: Le Lettere
pubblicato: 2004-08-15T00:00:00+00:00


CAPITOLO 37. LO STRAZIO DEI CITTADINI

Quando una città strappa dal chiuso protetto dei focolari i suoi vecchi, avviandoli a una sorte crudele, è come una volpe in trappola che si tronca da sé a furia di morsi la zampa prigioniera per riguadagnare, azzoppata, un’illusione d’esistenza. Quando una città caccia dal cerchio sicuro delle mura i propri bambini per mandarli al massacro, è come l’equipaggio di una nave che durante la tempesta getta fuori il più prezioso dei carichi per scampare al naufragio. Quella città disperata, che ha dovuto scegliere di sradicare il proprio passato e di affogare il proprio futuro, vive il presente tra mille angosce, di dolore in dolore vedendo avvicinarsi la lenta morte per dissanguamento, il naufragio ineluttabile.

Uno spettacolo ben strano, nell’ora imminente del crepuscolo del 24 settembre 1554, attese Ristoradanno e i suoi nei pressi della porta Ovile, che raggiunsero al galoppo per riguadagnare l’esterno della città e le più o meno sicure vie dei campi. Una gran folla ondeggiava tutt’intorno ingombrando la via, sorvegliata da armati senesi che, con le alabarde per traverso, la contenevano come un gregge di pecore scure dentro quel mobile recinto improvvisato, in cui le uniformi sgargianti dei soldati mettevano macchie di colori vivaci. Saranno state un paio di centinaia di persone, calcolò Leonbruno mentre arrestava il cavallo a prudente distanza, imitato dai suoi: l’ingombro, vide ben presto, era dovuto anche ai bagagli che ciascuno, tranne i più piccini, si portava addosso e appresso.

Ma al di fuori del perimetro dei soldati, altri Senesi si affollavano andando a ingrossare la massa fluttuante, che rammentava uno sciame d’api quando a primavera, volato via dall’arnia nativa dietro a una nuova regina, nel sostare per riposarsi appeso a un ramo somiglia a un grosso frutto brulicante. Dalla confusione salivano le grida e i pianti dei cittadini e le urla di minaccia dei soldati.

«Mio Dio» ansimò Manfredi alle spalle del conte, «ecco le bocche inutili…».

Ansano si segnò senza una parola, mentre il conte, pur restando anch’egli in silenzio, tormentava così fieramente il suo cavallo con la stretta delle redini e la pressione degli speroni, che la povera bestia fece un mezzo giro su se stessa con un nitrito e un accenno d’impennata. Il conte, impostasi la calma, carezzò il sauro finché non si acquietò. Restarono sul posto a guardare la scena da lontano, mentre i cavalli, fiutando il pericolo e la paura, scalpitavano sempre più insofferenti.

L’infelice moltitudine era composta in massima parte, come si distingueva anche a distanza, di poveri, di vecchi, di bambini smunti e di qualche misera donna, resi quasi indistinguibili dalle vesti cenciose, che ingrigivano nella poca luce della via. Tutti furono spinti inesorabilmente nel vano antemurale della porta, in direzione dell’esterno: e nonostante l’estrema resistenza dei cacciati, e i vani abbracci dei congiunti che cercavano di trattenerli, la pressione della scorta militare espulse le bocche inutili con i loro fagotti, giù per la ripida discesa nella valletta fuori porta Ovile. A dare secchi comandi, incitando gli esiliati ad affrettarsi e rimproverando i soldati



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