L'ultima partita by Enrico Pedemonte

L'ultima partita by Enrico Pedemonte

autore:Enrico Pedemonte [Pedemonte, Enrico]
La lingua: ita
Format: epub
editore: RIZZOLI LIBRI
pubblicato: 2021-12-20T12:00:00+00:00


Auschwitz, settembre 1944

La mattina dopo, alle quattro siamo pronti sul piazzale, schierati sull’attenti in quattro file da dieci. Ci sono cinque camion ad aspettarci. Viaggiamo pigiati come sardine, in compagnia di una montagna di attrezzi perché a ogni gruppo sono stati forniti un carrello, due picconi, otto pale, catene e funi per sollevare le bombe, pinze e chiavi inglesi per svitare il detonatore e una sonda metallica. Tre SS, sedute sull’unica panca, ci controllano con i mitra spianati, un’altra dozzina è a bordo di un camion che ci segue con i fanali puntati su di noi. Qualche minuto dopo, quando entriamo nella strada nazionale, avverto un’eccitante sensazione di libertà.

Arriviamo a destinazione che è ancora buio, avvolti da una nebbiolina che sa di acido. Nel piazzale davanti a una fabbrica bombardata un filare di alberi sta ancora bruciando. Lì davanti c’è un gruppo di persone che ci aspetta. Claussen arriva dopo qualche minuto su una motocicletta di grossa cilindrata. Ci segue con attenzione mentre scarichiamo i carrelli ed entriamo nello stabilimento, aggirando le macerie. Parla poco ma si dimostra attento a ogni dettaglio del nostro lavoro, sibila ordini secchi e ho l’impressione che mi osservi con un’espressione sospesa, perfida, come quella di un rapace che aspetta di avvinghiare la preda. Quando i quattro gruppi si separano, lui segue il mio. Quando il pilota della Luftwaffe ci distribuisce occhiali da aviatore e fazzoletti bagnati per filtrare l’aria sempre più irrespirabile, lui indossa i suoi occhiali da motociclista e pigia il fazzoletto sulla bocca. Fino a due giorni prima qui si producevano aerei da combattimento, ora il terreno è disseminato di pezzi di lamiera, eliche, schegge di vetro. In certi punti il fumo è così denso che dobbiamo arretrare e cambiare percorso. Arrivati a destinazione, la nostra guida ci indica il punto in cui è caduta la bomba, la nostra prima bomba. Sta albeggiando.

«Dovete scavare qui, fino a due metri di profondità» dice il pilota mostrandoci un piccolo cratere di terra smossa mentre Claussen annuisce, severo. Poi traccia un quadrato di otto metri di lato con un bastone. «Quando avete finito chiamatemi.» Prima di allontanarsi, Claussen mi guarda fisso negli occhi e mormora: «Un campione, eh?». Mi scruta per qualche secondo con un’espressione beffarda nello sguardo: «Dimostramelo!».

Io scatto sull’attenti: «Jawohl!».

Lo seguo con lo sguardo mentre si allontana. Sono confuso, quell’uomo mi fa paura. Si sta facendo beffe di me come io facevo con i giocatori più deboli. Non affondavo mai i colpi, li osservavo mentre si stremavano di fatica, mi godevo i loro inutili sforzi e alla fine, quando la loro resistenza si faceva più fiacca, li liquidavo. Ora sono io il più debole della partita e il trofeo in gioco è la mia vita. È una sfida umiliante ma sono obbligato ad accettarla.

È una giornata di sole e quando la brezza spazza via il fumo la visibilità è perfetta. Ci mettiamo al lavoro di buona lena. Nessuno fiata e non solo per risparmiare le forze. Siamo tesi, usiamo la pala e il piccone con leggerezza ed evitiamo ogni movimento inutile.



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