Sei segreti by Gladys McGarey

Sei segreti by Gladys McGarey

autore:Gladys McGarey [McGarey, Gladys]
La lingua: ita
Format: epub
editore: EDIZIONI PIEMME
pubblicato: 2024-02-21T12:00:00+00:00


QUARTO SEGRETO

Non siete mai veramente soli

19

La vita è connessione

I miei ricordi più cari dell’infanzia sono legati alle nostre missioni invernali. Adoravo la sensazione di avere un lavoro da fare, e per di più un lavoro che ci riempiva di gioia. Mi piaceva l’idea che facessimo affidamento gli uni sugli altri. Credo che quel periodo abbia instillato in me una grande fiducia nella comunità.

Una sera, mentre eravamo seduti a tavola nella tenda di famiglia a giocare a Scarabeo, entrò Ayah. «C’è un sadhu» annunciò, sorridendo. I sadhu erano una presenza comune in India, ma non nel nostro ospedale da campo, e sapevo esattamente a quale sadhu si riferiva. Noi cinque bambini balzammo in piedi – Gordon era così piccolo che non doveva nemmeno aver capito il perché – e corremmo fuori, seguiti dai genitori.

Sulla soglia c’era un uomo alto, con gli occhi scuri e penetranti che irradiavano misticismo. Oggi capisco di essere stata in presenza di un’anima antica, anche se all’epoca avrei considerato blasfemo un discorso simile. Sadhu Sundar Singh era un cristiano convertito che rifiutava l’anglicizzazione del cristianesimo. Credeva che il modo migliore per diffondere la sua fede in India fosse agire come aveva agito Gesù, senza perdere la sua identità indiana. Indossava il tipico dhoti color zafferano dei sadhu, portava un turbante e la barba folta. Quando ci vide, sorrise. «Mi siete mancati, bambini» disse.

Sadhu Sundar Singh veniva nel nostro ospedale da campo ogni inverno, dopo aver trascorso le estati in Tibet. Viaggiava sempre a piedi e trascorreva una o due settimane con noi, rifocillandosi con qualche pasto sostanzioso e deliziando i bambini del campo con storie e canzoni. Le persone erano naturalmente attratte da lui; era come se la sua presenza facilitasse le relazioni. Era una cosa che mi piaceva. Da grande, speravo di saper fare altrettanto. Volevo riversare il mio amore sui bambini come faceva lui, portare speranza a tutti coloro che mi avrebbero incontrata e raccontare con gioia le mie storie a chiunque fosse interessato ad ascoltarmi. Volevo vivere in connessione con gli altri.

Fondamentalmente, siamo tutti connessi, ma è facile dimenticarsene e vederci come esseri separati. Del resto io sono io, avvolta nella mia pelle, e voi siete voi, avvolti nella vostra. Tuttavia, siamo creature sociali e dipendiamo gli uni dagli altri per sopravvivere. Non importa quanto ci sforziamo di separarci, facciamo parte di una comunità, nel bene e nel male. Facciamo parte di una famiglia, una cultura, un Paese, un continente, una specie. Ci connettiamo attraverso esperienze e geni condivisi. Condividiamo letteralmente l’aria che respiriamo.

Forse siamo esseri separati, ma restiamo una comunità. Abbiamo una forza vitale collettiva. E come la nostra forza vitale individuale, anche quella collettiva richiede delle cure.

La prima volta che mi venne questa idea fu nel 1969, quando Bill e io andammo in Israele e visitammo un kibbutz. Quella sera restammo alzati fino a tardi, pieni di energia, a parlare di ciò che avevamo visto, di come tutto nella comunità fosse interconnesso. Tutti avevano uno scopo, un lavoro. Quello che i ragazzi facevano a scuola era legato a quello che succedeva nella fattoria, in ospedale o in cucina.



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