Senza pensarci due volte by Tina Pizzardo;

Senza pensarci due volte by Tina Pizzardo;

autore:Tina, Pizzardo; [Pizzardo, Tina ]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Storia, Intersezioni
ISBN: 9788815371737
editore: Societa editrice il Mulino Spa
pubblicato: 2022-07-15T00:00:00+00:00


Capitolo settimo

Ritorno a Torino

La sorveglianza è peggio della prigione, m’avevano detto le comuni.

Per voi, non per me, pensavo, io ho una casa, una famiglia onesta che mi assisterà fino a che non trovo lavoro. E lavoro – impiegata, commessa, operaia – una come me lo trova.

Infatti, dopo un anno un lavoro – non trovato: piovuto dal cielo – l’ho avuto. Ma la famiglia... Mai avrei immaginato che a farmi rimpiangere la prigione sarebbe stato mio padre.

Proprio mio padre che non s’è mai arreso al fascismo.

Nel ’28, mentre io ero in prigione, aveva, con fermezza, rifiutato la tessera offertagli in grazia del suo passato militare, sebbene le iscrizioni fossero chiuse.

Più tardi nel ’29 ci sono state le «elezioni plebiscitarie» con lista unica e scelta fra la scheda con NO su fondo bianco e quella con SÌ campeggiato sul tricolore. A busta chiusa il tricolore traspariva chiaro.

Il presidente del seggio fa l’atto di restituire la scheda a mio padre facendogli gentilmente osservare: «Guardi meglio, di certo ha scambiato le schede».

«No, niente sbagli, ho scelto proprio questa, la prenda.»

Ha portato a casa il SÌ non votato e, raccolto in terra dove non ce n’era d’altra sorta, un NO, per farmi vedere come le schede chiuse fossero riconoscibili.

A suo parere non c’era nessuno a prender nota di chi votava NO: si erano, a ragione, fidati della pavidità degli italiani.

Pavido mio padre non era, ma molto ingenuo sì. Già prima del mio ritorno era deciso a battersi per farmi rientrare nell’insegnamento: perché, morto lui, che sarebbe stato di noi due sorelle senza un soldo, senza lavoro?

Capito che per vie legali non c’era nulla da fare, gli viene la bella pensata di chiedere giustizia, non a quel ciarlatano di Mussolini, ma al re in persona.

«Tocca a te», mi spiega, «esporre per iscritto a Sua Maestà il tuo caso. Importante è far notare che gli operai condannati a un anno come te, finita la pena tornano al lavoro, tu no, né adesso né mai. Ti hanno condannata a vita.»

Tale la sua fede nel re – il Re può tutto – che non riesco a fargli intendere ragione.

«Al re, complice del duce, non voglio chiedere niente.»

«Vittima, non complice.»

«Vittima se vuoi, ammetti allora che non ha più poteri.» «Se non scrivi tu, scrivo io.»

«E io dichiaro che non voglio grazia. Ma non illuderti, il tuo re manco ti risponde.»

La discussione continua, degenera in alterco, finisce che (mi vergogno a dirlo) io mi prendo di gran schiaffi mentre mia sorella piangendo cerca di mettere pace.

Ogni giorno così. Una vita d’inferno.

Andarmene di casa: sorvegliata, senza un soldo, dove andare?

In una lettera ad Altiero, scritta un mese dopo il mio ritorno a casa, giungo a dire che per me non c’è altro scampo: tornare in prigione o morire. Il che, essendo il suicidio escluso, significa: mi andrebbe bene la prigione.

Nell’aprile del ’29 faccio capire ad Altiero che forse il partito mi farà emigrare, ne accenno ancora nelle lettere seguenti. In giugno non è più l’emigrazione che mi viene offerta, ma solo una corsa a Parigi, andata e ritorno.



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