Sotto il nome del Cardinale by Edgardo Franzosini

Sotto il nome del Cardinale by Edgardo Franzosini

autore:Edgardo Franzosini [Franzosini, Edgardo]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Adelphi
pubblicato: 2020-01-18T16:00:00+00:00


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Le prigioni di Federico occupavano l’ala meridionale del palazzo arcivescovile, adiacente alle scuderie. Nel suo Sulle antiche carceri di Milano Serafino Biffi le definisce «di rigida severità», ma aggiunge che «per essere equi nei giudizj non si deve dimenticare che in quei tempi tutte le prigioni erano assai tristi». La forma del fabbricato era quella di una torre a quattro piani. Il dorso si appoggiava alle abitazioni dei canonici del Duomo, mentre la fronte si affacciava verso la via delle Ore, dalla quale però la separava un’alta muraglia. Sui due fianchi dell’edificio erano disposte le prigioni, e a pianterreno si apriva un angusto cortile in fondo al quale era situata la stanza che veniva usata per gli interrogatori. Da questa stanza, attraverso un breve passaggio, si accedeva a un locale cupo e senza finestre, dalla volta alta e stretta, al cui centro pendeva la carrucola che serviva per dare, quando era il caso, i tratti di corda agli interrogati.

Il primo interrogatorio a cui venne sottoposto Ripamonti ebbe luogo all’inizio del mese di agosto del 1618. A rivolgere le domande era il reverendo Arcelli, vicario criminale. Ripamonti si trovò di fronte, come racconta nel prosieguo della missiva di cui abbiamo già letto la prima parte, «giudici pasciuti al desco arcivescovile, soliti sedervisi meco, corrotti dall’aspettazione di conseguire mercedi, dalla paura di cadere in disgrazia».

«Chiarito innocentissimo d’opere,» scrive Ripamonti «fu mestieri scrutare per calunniarmi i pensieri». Gli chiesero innanzitutto cosa pensasse riguardo all’immortalità dell’anima. Credeva in una seconda vita dopo la morte? «Risposi senza affermare o negare, sibbene interrogando alla mia volta – perché mai mi movessero così stolide domande». Al che il vicario criminale balzando dal suo scranno – e immaginiamo tremante di collera – gridò rivolto all’interrogato: «Ti sembrano stolidaggini coteste?». E Ripamonti, con volto impassibile: «Spetta a filosofi trattar di cotai tesi, e disputarne; figlio di povero contadino, abituato sin dal tempo che succhiava il latte materno ad attenermi ai prescritti della Dottrina Cristiana quali me gl’insegnava il mio curato, sono cresciuto ritenendo, non già superstizione credere, ma esser sovrana stoltezza discredere la vita avvenire». Parole in cui si potrebbe cogliere un’eco di quelle di Blaise Pascal, se solo alla pubblicazione delle Pensées non fossero mancati più di cinquant’anni. È invece possibile che quell’idea fosse stata suggerita a Ripamonti dalla lettura di un altro libro, l’Adversus gentes di Arnobio, opera che da molti è stata considerata un plausibile antecedente delle riflessioni pascaliane, e una cui copia, stampata a Roma nel 1583, non solo faceva parte del patrimonio dell’Ambrosiana, ma era servita al cardinale Federico (o a chi per lui) per la stesura dell’Excerpta et notae.

La risposta di Ripamonti era, naturalmente, ben lontana dall’accontentare il vicario. Il quale riprese a irretire il prigioniero «con giri di parole» e a tempestarlo di «capziosi quesiti». Nella speranza di mettere fine a quella tribolazione e di poter chiudere la bocca, almeno su quella materia, a chi lo inquisiva, Ripamonti si rivolse direttamente al cancelliere a cui spettava il compito di verbalizzare l’interrogatorio: «Scrivi .



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