Sulla vetta dell'Everest by Jim Davidson

Sulla vetta dell'Everest by Jim Davidson

autore:Jim Davidson [Davidson, Jim]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Newton Compton Editori
pubblicato: 2022-01-09T23:00:00+00:00


27

Quando spinsi la mia piccozza destra nel fianco ripido del pendio, la punta affondò di qualche centimetro nel ghiaccio, facendo volare dei cristalli gelati nel cielo grigio del Colorado. Lungo il manico si trasmise alle mie mani una piccola scossa, e dal tonfo della punta d’acciaio capii che il posizionamento era buono e il ghiaccio era solido. Potevo salire.

Era il mio cinquantatreesimo compleanno, e come avevo già fatto in almeno altre dieci occasioni stavo passando la giornata a scalare nel Parco nazionale delle Montagne Rocciose insieme a un amico. La parete era abbastanza difficile da tenermi impegnato tutto il giorno, ma allo stesso tempo non così complessa da non riuscire a essere a casa per cena, per festeggiare con Gloria e i ragazzi. L’aria pungente dell’autunno attirava a valle i cervi e scoraggiava i turisti occasionali; in quella solitudine, ci sembrava di avere un intero parco nazionale solo per noi.

Io e Alan eravamo partiti presto, e all’alba stavamo già percorrendo un sentiero che attraversava un bosco di pioppi. In cielo si addensavano delle nuvole minacciose, quindi ci affrettammo a terminare la scalata prima che scoppiasse il temporale. Stavamo risalendo la parte intermedia del Ptarmigan Finger, sul lato nord della Flattop Mountain. In quella profonda spaccatura nella roccia la neve non si scioglieva neanche d’estate, e così potevo sempre contare su un lungo canale di ghiaccio tenero anche se il giorno del mio compleanno era a settembre.

Avevamo già scalato poco più di duecento metri, e ne mancavano solo una trentina. Facendo leva sui ramponi, mi avviai per l’ultimo tratto con una piccozza da ghiaccio in ciascuna mano, mentre Alan, sotto di me, mi dava corda man mano che salivo, sempre pronto a tenere salda la presa nel caso fossi caduto. Mi fermai a mettere in posizione un ultimo appiglio prima di percorrere il tratto finale: avvitai una vite da ghiaccio nella parete bianca, assicurai la corda con due moschettoni e feci un lungo sospiro per rilassarmi. Quella protezione intermedia avrebbe abbreviato la mia caduta se fossi scivolato. L’ultima parte della parete aveva una pendenza di più di sessanta gradi, quindi dovevo metterci tutta l’attenzione possibile.

A quattro mesi dalla spedizione sull’Everest ero ancora piuttosto in forma, ma spingere i ramponi nel ghiaccio per diverse centinaia di volte mi aveva fatto stancare i polpacci; dovevo restare concentrato su ogni colpo di piccozza, tenendo sempre i ramponi bene in posizione. Più mi allontanavo dall’ultima protezione che avevo piazzato, più aumentava l’altezza da cui sarei potuto cadere: scalare bene era il modo migliore per restare al sicuro.

Quando superai il margine della parete mi ritrovai sulla cima piatta del canale di ghiaccio.

Uno sperone di roccia a pochi metri da me mi sembrò un ottimo punto dove fermarmi per tirare su Alan. Dopo aver messo in posizione un solido appiglio con tre viti diverse, mi legai per bene anch’io: trentatré anni di esperienza in alta montagna mi avevano insegnato a non affidare mai la mia vita o quella del mio compagno a un unico pezzo di equipaggiamento.

Urlai verso il basso: «Molla l’appiglio!».



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