Teoria del film by AA.VV
autore:AA.VV. [AA.VV.]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788858415412
editore: Einaudi
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00
Capitolo quinto
Pelle e contatto
Fin dal titolo, Crash (Paul Haggis, 2004), vincitore a sorpresa dell’Oscar per il miglior film nel 2005, preannuncia la collisione fisica dei corpi. Nel primo dialogo del film, sulle immagini di un incidente automobilistico una voce lamenta che gli abitanti di Los Angeles si trincerano tutti dietro il vetro e metallo delle loro auto, cosicché di quando in quando devono compensare la mancanza di contatto attraverso qualche violento scontro1. Gli episodi intrecciati del film s’interrogano sull’effettiva possibilità di contatto, comunicazione e comprensione fra gli uomini. Tuttavia non è solo per questo che abbiamo scelto Crash quale incipit emblematico, ma anche perché il film pone in rilievo il paradigma della pelle in un altro modo ancora: la xenofobia e i pregiudizi razziali caratterizzano infatti in Crash l’immagine di Los Angeles. La superficie corporea e il colore della pelle di afroamericani e ispanici, profughi iraniani e asiatico-americani crea una coerenza tematica attraverso cui il film controbilancia il proprio carattere episodico. Ma Crash si muove entro il paradigma di pelle e contatto anche a un livello metaforico e semanticamente piú scivoloso: alcuni personaggi sono stereotipati attraverso i propri «tatuaggi di galera»; un mantello magico sembra miracolosamente proteggere da una pallottola il corpo di una bambina di cinque anni, un poliziotto razzista molesta e umilia un’agiata signora afro-americana, abusando sessualmente di lei con il pretesto di una perquisizione. I personaggi tentano continuamente di stabilire un contatto vero, di penetrare oltre la facciata – sotto la pelle – dell’Altro, e ogni volta questi tentativi di un’intesa somatica, affettiva e aptica (ossia ottico-tattile) naufragano sulla superficie della pelle.
Nella teoria filmica è prevalso a lungo un paradigma oculocentrico, il quale favoriva quei contributi che ponevano la vista al centro dell’interesse. Questo predominio ha avuto inizio negli anni Venti del Novecento, quando Rudolf Arnheim applicava la teoria della Gestalt al cinema (cfr. cap. I) e Béla Balázs si concentrava sul significato del primo piano (cfr. cap. III). Anche le teorie costruttiviste di Sergej Ejzenštejn sul montaggio e la visione di André Bazin della realtà come manifestazione ambigua ma indivisibile dell’essere, che trova nel cinema la sua forma ontologica fondamentale, si orientavano sull’occhio quale organo della percezione visiva (cfr. cap. I). Le teorie dominanti dagli anni Sessanta agli Ottanta privilegiavano infine la vista ancor piú decisamente delle teorie precedenti: la teoria dell’apparato di Baudry chiamava in causa gli uomini-occhio della caverna platonica (cfr. cap. III), mentre la teoria femminista si è cimentata a lungo intorno a parole-chiave quali voyeurismo, feticismo, esibizionismo e sguardo maschile (cfr. cap. IV).
Naturalmente sarebbe assurdo tentare di contrastare la centralità del senso della vista nel cinema, ma la costellazione occhio/sguardo conosce anch’essa una sua aporia: il soggetto moderno, come constatano tutte queste teorie, si costituisce attraverso il regime dello sguardo (gaze), un «essere-visto» da uno sguardo senza luogo e onnipotente, che sembra non avere un’origine né un supporto. Tale autocostituirsi esternalizzato del soggetto è rafforzato dal predominio di uno spettacolo (mediatico), che tuttavia «non ricambia lo sguardo», ma esige un pubblico partecipe e una mascherata performativa.
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