Testa alta, e avanti by Gaia Tortora

Testa alta, e avanti by Gaia Tortora

autore:Gaia Tortora [Tortora, Gaia]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Mondadori
pubblicato: 2023-02-16T12:00:00+00:00


VII

Tutto questo dolore

Fine settembre 1983, mio padre era agli arresti da tre mesi. Con mamma e Silvia presi il treno per Milano, poi da lì proseguimmo in macchina fino a Bergamo, al carcere di via Gleno, dove era stato trasferito.

Il viaggio fu eterno. Pensavo a lui, sette ore a metà agosto chiuso in una camionetta della polizia, senza che gli avessero mai offerto un goccio d’acqua.

Questa volta il mio permesso c’era, non vedevo l’ora di entrare anch’io. Non avevo paura, ero pronta a tutto. E poi avevo addosso la mia corazza, non poteva succedermi niente.

Mi ricordo le sbarre: al cancello, alle porte, alle finestre. Le serrature automatizzate, quel suono che si sente nei film, il clang delle porte scorrevoli che sbattono una contro l’altra. Chi non è abituato non se l’aspetta, fa trasalire.

Nella sala colloqui faceva freddo. Papà era seduto a un lungo tavolo rettangolare. Potevo sedermi di fronte a lui, allungare le braccia e toccarlo. Il resto scomparve perché lui era ancora lui, aveva il suo odore, le sue mani, la sua voce.

Ogni volta che visito un carcere il rimbombo dei chiavistelli mi angoscia, ma molti anni fa mi sono educata a pensare che se solo fossi stata dura abbastanza, sarei sopravvissuta. Quindi avanti tutta, a testa alta, in nome di mio padre. Una piccola Sancho Panza al fianco del suo eroico cavaliere. Sempre forte, sempre dignitosa, tutta d’un pezzo, perché il contrario sarebbe stato pericoloso per il gruppo intero. Avrebbe offerto il fianco all’ennesima illazione, ci avrebbe esposto al crollo collettivo, alla rovina. Alla catastrofe.

«Catastrofe» è una parola greca che significa «rovesciamento», «capovolgimento». Veniva utilizzata dai tragediografi per indicare un evento narrativo che era sì una sciagura, ma non una qualsiasi: era una sciagura risolutiva, che conduceva alla soluzione del dramma.

La mia famiglia era ovviamente terrorizzata dall’eventualità che la catastrofe potesse risolversi a nostro sfavore. Ipotesi sempre presente, un convitato di pietra che si svegliava con noi al mattino e si addormentava con noi la sera, sedeva con noi a tavola, ci seguiva ovunque. Scacciarla non era possibile, quindi l’unico modo per sopravvivere era ignorarla, fingere che non esistesse. La verità avrebbe trionfato, noi avremmo vinto e saremmo tornati alla normalità, alla vita che avevamo prima di quella lacerazione.

Combattere significava anche questo: tenere duro, resistere. Senza piegarci, men che meno spezzarci. È stato allora che ci siamo convinti che provare o mostrare dolore era da deboli. Che qualsiasi crepa nel nostro essere tutti d’un pezzo ci avrebbe mandato in mille pezzi.

È un peccato, ma tutto si rompe. Esseri umani compresi.

Fino ai quarant’anni sono stata un bravo soldato. Ho combattuto la nostra battaglia familiare, ho lavorato indefessamente. Poi sono esplosa.

Ironia della sorte, in un periodo in cui stavo benissimo. Avevo tutto: due figlie meravigliose, l’amore, la carriera.

Poi il mio direttore, Enrico Mentana, mi ha chiesto di condurre il telegiornale. Altri avrebbero fatto i salti di gioia, per me non era così perché quella del conduttore del telegiornale è una professione precisa, che avevo svolto agli inizi della mia carriera ma alla quale non pensavo più da anni.



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