Trionfo della morte by Gabriele d’Annunzio

Trionfo della morte by Gabriele d’Annunzio

autore:Gabriele d’Annunzio [d’Annunzio, Gabriele]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Mondadori
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


III

I canti dei mietitori e delle spigolatrici si alternavano, dall’alba al vespro, giù per i fianchi della collina feconda. I cori maschili celebravano, con una veemenza bacchica, la gioia dei larghi pasti e la bontà del vino annoso. Per gli uomini della falce, tempo di mietitura era tempo di larghezza. D’ora in ora, dall’alba al vespro, secondo il costume antico, interrompevano l’opera per mangiare e per bere su la stoppia, tra i covoni recenti, in gloria del liberale signore. E ciascuno toglieva dalla sua scodella tanto di cibo che bastasse a sfamare una spigolatrice. Così, nell’ora del mangiare, Booz aveva detto a Rut Moabita: – Accostati qua, e mangia del pane, ed intigni il tuo boccone nell’aceto –; e Rut s’era posta a sedere allato ai mietitori e s’era sazia.13

Ma i cori feminili si prolungavano in cadenze quasi religiose, con una dolcezza lenta e solenne, rivelando la santità originale dell’opera frumentaria, la primitiva nobiltà di quell’officio in cui il sudore degli uomini consacrava su la terra paterna il nascimento del pane.

Li udiva Giorgio e li seguiva con l’anima in ascolto; e un benefizio insperato si spandeva a poco a poco su lui. Pareva che a poco a poco la sua anima si sollevasse in un’aspirazione sempre più larga e più serena come più pura diveniva l’onda del canto propagandosi nei pomeriggi ancóra torridi ove la speranza della sera pacificatrice incominciava a diffondere una specie di calma estatica. Era una rinnovellata aspirazione verso le fonti della vita, verso le Origini. Era forse l’ultimo sussulto della sua giovinezza ferita nell’intimo della potenza sostanziale; era l’estremo anelito verso la riconquista d’un bene omai perduto per sempre.

Il tempo della mietitura volgeva al suo termine. Passando egli lungo i campi mietuti, intravedeva certe belle usanze che sembravano riti d’una liturgia georgica. Si soffermò, un giorno, presso un campo già raso ove i mietitori avevano già composta l’ultima bica; e assistette alla cerimonia.

Alle cose affaticate dall’ardore diurno soprastava l’ora limpida e dolce che doveva raccogliere nella sua sfera di cristallo le ceneri impalpabili del giorno consunto. Il campo si disegnava in parallelogrammo su un pianoro cinto di olivi giganteschi a traverso i cui rami appariva la zona cerulea dell’Adriatico misteriosa come il velario intravisto dietro le sacre palme d’argento nel tempio. Le alte biche sorgevano a eguali intervalli, in forma di coni, dense e splendide di ricchezza adunata dalle braccia degli uomini, magnificata dal canto delle donne. Nel centro del campo la torma dei mietitori faceva cerchio intorno al suo capo, avendo fornita l’opera. Erano uomini membruti, adusti, vestiti di lino. Nelle braccia, nelle gambe, nei piedi ignudi avevano le deformità che la lunga e lenta pazienza delle fatiche dà alle membra esercitate. Riluceva nel pugno di ciascun uomo la falce, ricurva e sottile come il primo quarto della luna. Di tratto in tratto essi con un gesto semplice della mano libera si tergevano il sudore aspergendone il suolo ove ai raggi obliqui brillava la stipula.

Fece quel medesimo gesto il capo; e, levando quindi la mano



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