Zadie Smith by Perché Scrivere

Zadie Smith by Perché Scrivere

autore:Perché Scrivere
La lingua: ita
Format: azw3, mobi
pubblicato: 2015-10-24T22:00:00+00:00


[...] e ancora più difficile è poter dire: «Non soltanto è un libro di questo tipo, ma il suo valore è questo; qui sbaglia; qui è riuscito; questo non va; questo va». Per potere adempiere questa parte del compito del lettore, bisogna avere tanta immaginazione, intuito, ed erudizione, che quasi non si riesce a concepire una mente umana abbastanza dotata; nemmeno i lettori più sicuri di se stessi oserebbero vantarsi di possedere tutte queste qualità [...] E anche se i risultati sono disgustosi, e i nostri giudizi sbagliati, è sempre il nostro gusto, quel nervo della sensazione che ci manda i suoi impulsi, a offrirci la fondamentale illuminazione; impariamo attraverso il sentimento; non possiamo sopprimere la nostra idiosincrasia senza impoverirla.[2]

Anche gli scrittori imparano attraverso il sentimento, e i romanzi che amiamo allenano la nostra sensibilità: educano e complicano le parti di noi che sentono. È questo che li distingue dai trattati filosofici o dai giornali. Il processo, un romanzo sulla giustizia, opera su di noi in modo radicalmente diverso dal saggio di John Rawls A Theory of Justice o dal magistrato di un programma tv a tema giuridico che conciona a gran voce dallo schermo. Leggere Il processo, come qualunque altro romanzo, è appunto un processo senza pari. Sia lo scrittore, sia il lettore debbono subire un’espansione etica – consentitemi di chiamarla espansione del cuore – per poter capire ed accogliere l’alterità umana cui la narrativa li pone di fronte; entrambi, in modi diversi e affascinanti, non riescono a compiere quest’azione nel modo ideale in cui si potrebbe compiere. Ma se fosse ideale, se la traduzione dal cervello alla pagina fosse perfetta, allora naturalmente si impoverirebbe – come suggerisce Virginia Woolf – tutta l’idiosincrasia, la sensibilità personale: il romanzo non esisterebbe affatto. Non vi sarebbe nessun atto di comunicazione, nessun processo, nessun dono: semplicemente, parleremmo a noi stessi.

Fallire meglio. Che strano lavoro è il nostro, di noi scrittori, di noi critici, di noi lettori! Che scriviamo fallimenti, leggiamo fallimenti, studiamo fallimenti, li recensiamo. Figuratevi un istituto scientifico che dedicasse il suo tempo ai ritrovati che non riescono mai a fare davvero quello che c’è scritto sulla confezione, come le pillole dietetiche o le lozioni riparatrici per i capelli o le ali di Icaro. Eppure, la letteratura che mi sembra più bella e più umana è quella che mostra questo suo lato imperfetto. Il fatto che scrivere e leggere siano arti tanto difficili ci rammenta quanto spesso la nostra stessa soggettività ci inganni. Noi non conosciamo le persone come pensiamo di conoscerle. Il mondo non è soltanto come diciamo noi. «Non c’è etica senza fallimento», ha detto Simone de Beauvoir. E io ci credo.

[*] Originariamente apparso sul Guardian di sabato 13 gennaio 2007 col titolo «Fail Better»; poi ripubblicato in italiano sul numero 725 di Internazionale del 28 dicembre 2007.



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