Chi ha paura muore ogni giorno by Giuseppe Ayala

Chi ha paura muore ogni giorno by Giuseppe Ayala

autore:Giuseppe Ayala [Ayala, Giuseppe]
La lingua: ita
Format: epub, mobi
Tags: Saggistica
editore: Mondadori
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


L’interrogatorio di Totuccio Contorno si risolse in uno show. In assenza di carisma, fu coperto di insulti, ai quali, per quello che potè, replicò a ruota libera. Si ostinò a parlare esclusivamente in dialetto palermitano, confermando in pieno tutte le accuse. Nessuno osò chiedere un confronto. Al pari di Buscetta fu accompagnato a Palermo da Gianni De Gennaro e ospitato in un appartamentino attrezzato apposta all’interno della struttura del bunker. Chiese a De Gennaro di farmi sapere che voleva incontrarmi prima di comparire davanti alla Corte. Gli mandai a dire che non era possibile e che, tutt’al più, ci saremmo potuti vedere a cose fatte, prima della sua partenza. Il rapporto con i collaboratori dev’essere ispirato alla trasparenza: non si incontrano, se non per esigenze strettamente processuali. E in quel frangente facevano capo alla Corte e non certo a me.

A interrogatorio concluso, De Gennaro tornò nella mia stanza per ricordarmi il messaggio che, tramite lui, avevo inviato a Contorno.

L’incontro durò pochi minuti. Voleva sapere com’era andata, ma tenne soprattutto a chiarire che si era sempre espresso in dialetto per essere sicuro che «quelli delle gabbie» capissero tutto. Nel congedarci, mi prese alla sprovvista e mi baciò sulle guance. De Gennaro colse al volo il mio imbarazzo e, tanto per sdrammatizzare, si rivolse a Contorno dicendogli: «Totuccio, a me però mai mi hai baciato!». La risposta fu tranchant: «E chi c’entra? U dutturi Ayala un galantomu è. Tu si sbirru». Sempre mafioso era.

X

A ciascuno il suo

Il maxiprocesso fu diverso da tutti gli altri anche perché determinò la nascita di una sorta di comunità tra tutte le persone coinvolte, costrette a vivere insieme per intere giornate dal febbraio 1986 al dicembre 1987. Un autentico spaccato della nostra società, accomunato dalla più eterogenea delle convivenze: quella tra imputati, difensori, giudici, pubblici ministeri, addetti al bar e alle pulizie, segretari, cancellieri, giornalisti, carabinieri e responsabili della sicurezza (tra questi ultimi un gruppo scelto di personale della polizia penitenziaria al comando del generale Enrico Ragosa, da me soprannominato «Rambo»; e si capisce tutto!). Centinaia di persone che per ventidue mesi condivisero, senza volerlo, la loro quotidianità.

Osservando gli imputati, che avevo di continuo davanti, vissi fatalmente quella che definii la «prova vivente». Tutti i rapporti, le appartenenze, i collegamenti che avevamo ricostruito con pazienza in anni di indagini venivano, giorno per giorno, confermati dai loro comportamenti.

Le gerarchie, per esempio. I capi occupavano, in ciascuna gabbia, il posto in prima fila e i loro interrogatori venivano seguiti nel più assoluto silenzio. Le conversazioni di ciascun imputato privilegiavano gli altri membri della medesima famiglia mafiosa.

Quando parlava un boss, tutti gli altri tacevano. Quelli che risultavano legati da rapporti di affiliazione particolarmente stretti, sedevano sempre l’uno accanto all’altro. E così via.

La prova usciva dalla freddezza delle carte e si trasformava in vita vissuta. In molti casi le opinioni che mi ero formato studiando gli atti trovavano visibili riscontri. Un caso emblematico: Luciano Liggio, celebrato capo dei Corleonesi, era in carcere da oltre dieci anni. I suoi luogotenenti, Riina e Provengano, agivano in sua rappresentanza.



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