Come funzionano i romanzi by James Wood

Come funzionano i romanzi by James Wood

autore:James Wood [Wood, James]
La lingua: ita
Format: epub
editore: minimum fax edizioni
pubblicato: 2021-07-28T22:00:00+00:00


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Macbeth non viene visto tanto da Dio quanto da noi, il pubblico. Le sue preghiere, si può dire, sono soliloqui e, quando si tormenta al nostro cospetto sul dilemma in cui si trova, esse si avvicinano molto al pensiero mentale. Una delle ragioni del potere della tragedia ha a che vedere con la sua intimità domestica, per cui ci sembra di origliare la spaventosa privacy dei Macbeth, per non parlare delle esternazioni cariche di senso di colpa dei loro monologhi. In certi momenti il dramma sembra volere uscire da se stesso e svilupparsi in una nuova forma, la forma del romanzo.

Al banchetto per esempio, atto terzo, scena quarta, quando Macbeth vede lo spettro di Banquo, Lady Macbeth si china due volte verso di lui, e cerca di rafforzarne la determinazione. Dobbiamo immaginare i personaggi quasi sussurrare fra loro alla presenza degli ospiti. «Non sei più uomo per questa pazzia?», dice Lady Macbeth. «Com’è vero che sono qui, l’ho veduto!», risponde Macbeth. «Vergogna!», è la violenta risposta di lei. È sempre qualcosa di un po’ goffo a teatro, perché i nobili presenti devono parlare sommessamente sullo sfondo, in modo ben poco convincente, «teatrale», come se non udissero ciò che viene detto. Il problema è il carattere privato del dialogo fra marito e moglie: dove può realisticamente svolgersi, sulla scena? In simili momenti Shakespeare mi sembra di fatto un romanziere. Sulla pagina, ovviamente, tali momenti godono di tutto lo spazio che al romanziere piace destinare loro; è una semplice questione di regolazione del punto di vista («Lady Macbeth si volse prontamente verso il suo signore, impallidito, gli afferrò la mano con le unghie taglienti e sibilò: “Non sei più uomo per questa pazzia?”»).

La storia di Davide è quasi del tutto pubblica; quella di Macbeth è pubblicamente privata. E quest’uomo privato differisce da Davide in quanto possiede una memoria. È la memoria, il «custode del cervello», che non lascerà Macbeth in pace. «La mia mente s’era persa / Dietro cose dimenticate», dice pateticamente, ma il dramma dà corpo in realtà al terrificante, prefreudiano monito di De Quincey nelle Confessioni di un oppiomane: «Non esiste la possibilità di una cosa come il dimenticare». La vera maledizione che pesa sui Macbeth, insomma, non è teologica, nonostante tutto il macchinario di streghe e fantasmi; la vera maledizione è mentale: «Le scritte angosciose del cervello». Ora il pensiero di un personaggio può essere retrospettivo, può muoversi avanti e indietro fra il presente e il passato, abbracciare una vita intera:

Ho vissuto abbastanza: la mia vita

Ha toccato l’aridità, la foglia gialla;

E ciò che dovrebbe accompagnare la vecchiaia,

– Cose come onore, amore, obbedienza, schiere di amici –

Io non debbo aspettarmi di averle.1



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