Giovanni Episcopo by Gabriele D'Annunzio

Giovanni Episcopo by Gabriele D'Annunzio

autore:Gabriele D'Annunzio [Gabriele D'Annunzio]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Romanzo
pubblicato: 2012-04-19T09:34:14+00:00


Veramente, io non volevo parlarvi tanto di quel poveretto. Mi son lasciato trascinare; ho dimenticato tutto il resto: non so perché. Ma, veramente, quel poveretto è stato l’unico mio amico ed io sono stato l’unico amico suo, nella vita. Io l’ho veduto piangere ed egli ha veduto piangere me, più di una volta. Ed io ho rimirato il mio vizio nel suo vizio. Ed anche abbiamo avuto comune qualche patimento, abbiamo sofferta una stessa ingiuria, abbiamo portata una stessa vergogna.

Non era il padre di Ginevra, no; non aveva dato il suo sangue alle vene della creatura che mi ha fatto tanto male.

Io ho pensato sempre, con una curiosità inquieta e inappagabile, al padre vero, allo sconosciuto, all’innominato. Chi era mai? Non certo un plebeo. Alcune finezze fisiche, alcune movenze naturalmente eleganti, alcune crudeltà, alcune perfidie troppo complicate, e poi l’istinto del lusso, il disgusto facile, un modo particolarissimo di ferire e di straziare col riso, tutte queste cose ed altre rivelavano qualche goccia di sangue aristocratico. Chi era dunque il padre? Forse un vecchio osceno come il marchese Aguti? O forse un prete, uno di quei cardinali galanti che seminavano figli in tutte le case di Roma?

Ci ho pensato sempre. E qualche volta anche mi s’è presentata all’imaginazione una figura d’uomo, non vaga né mutevole, ma ben definita, con una fisonomia speciale, con un’espressione speciale, che pareva vivere d’una vita straordinariamente intensa.

Certo, Ginevra doveva sapere o almeno sentire di non avere alcuna comunanza di sangue col marito di sua madre. In fatti, io non ho mai potuto sorprendere negli occhi di lei, quando erano rivolti sul disgraziato, un lampo d’affetto o almeno di pietà.

In vece, l’indifferenza e spesso il ribrezzo, il disprezzo, l’avversione, anche l’odio, si mostravano negli occhi di lei, quando erano rivolti sul disgraziato.

Ah, quegli occhi! Dicevano tutto; dicevano troppe cose in un attimo, troppe cose diverse; e mi facevano smarrire. S’incontravano con i miei, per caso; e parevano d’acciaio, d’un acciaio lucido e impenetrabile. Ecco, a un tratto, si coprivano come d’un velo pallido, perdevano ogni acutezza. Pensate, signore, a una lama appannata da un alito…

Ma no, io non posso parlarvi del mio amore; non posso, non posso parlare del mio amore. Nessuno saprà mai quanto l’ho amata; nessuno. Ella non l’ha mai saputo; non lo sa. Io, io so ch’ella non mi ha mai amato neppure per un giorno, neppure per un’ora, neppure per un momento.

Sapevo questo fin da principio; sapevo questo anche quando ella mi guardava con gli occhi velati. Non m’illudevo. Le mie labbra non osarono mai proferire la domanda tenera, la domanda che ripetono tutti gli amanti: «Mi vuoi bene?» E mi ricordo che, standole vicino, sentendomi invadere dal desiderio, io pensai più d’una volta: «Oh, se potessi baciarle la faccia ed ella non s’accorgesse dei miei baci!»

No, no; io non posso parlarvi del mio amore. Vi dirò ancóra dei fatti, dei piccoli fatti ridicoli, delle piccole miserie, delle piccole vergogne.

Il matrimonio fu stabilito. Ginevra rimase ancóra a Tivoli per qualche settimana; e io andavo spesso a Tivoli, col tramway; mi trattenevo qualche mezza giornata, qualche ora.



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