Goli Taraghi by Tre donne. Racconti dall'Iran (2021)

autore:Tre donne. Racconti dall'Iran (2021)
Format: epub
pubblicato: 2021-11-20T00:00:00+00:00

1 Terzo imàm degli sciiti duodecimani, oggetto di culto particolare.

2 Guardiane della Rivoluzione, corrispettivo femminile dei pàsdaràn.

3 Ottavo imàm degli sciiti duodecimani il cui santuario a Mashhad è meta di intensi pellegrinaggi.

4 L’ayatollah Khomeini, uno dei principali fautori della Rivoluzione Islamica d’Iran.

Amineh

Avere domestici stranieri prima della Rivoluzione – filippini, indiani, afghani e, talvolta, perfino europei – era una novità fuori dal consueto rispetto alle vecchie usanze, come l’adozione di una parola non familiare nel linguaggio quotidiano, o di un termine estraneo e superfluo, privo di connessione e riferimento locali.

La bengalese Amineh, con i suoi lunghi capelli neri, i denti bianchi, lo sguardo perso e le pesanti palpebre che sembravano nascondere un sogno piacevole, era venuta dal sud del Bangladesh. Assomigliava a un’attrice dagli occhi trasognati, tipica dei film indiani. Aveva una risata sana e istintiva e un corpo pigro, lento, ricco di contegnosa civetteria femminile. Sapeva di essere seguita con lo sguardo, che vi erano occhi puntati a osservare quella sua bocca dolce e quel suo corpo caldo e sano, soprattutto quando indossava quegli abiti colorati, di seta rubino e verde, con gli orli luccicanti e i fiori d’oro ricamati. Era qui ormai da due anni e parlava persiano tranquillamente. Era serena, senza preoccupazioni, non importava dove fosse. S’era abituata a prestare servizio in luoghi sconosciuti. Eravamo noi a guardarla sbigottiti e, nel profondo del nostro cuore, a rimanere dubbiosi circa la presenza di questi stranieri, a esserne scontenti, anche se non lo davamo a vedere. S’era inserito un elemento estraneo nella nostra vita: a noi e a molti altri questo piccolo cambiamento, questo semplice avvenimento, sembrava foriero di eventi sconosciuti. Come se una mano invisibile avesse aperto la porta della nostra città e l’invasione di un’entità straniera minacciasse l’assetto della nostra tribù.

Amineh viveva in un suo mondo, i suoi pensieri e i suoi desideri – che si potevano contare sulle dita di una mano – non oltrepassavano i confini del suo cuore. Aveva un marito di nome Ràjà (master Ràjà), già sposato e con figli di primo letto, di trent’anni più anziano di lei. Secondo Amineh, la loro casa aveva otto stanze, tutte ricoperte di tappeti che appartenevano alla prima moglie. Pure i vassoi, le tende, i cuscini di velluto appartenevano alla prima moglie, tutto, compreso lo stesso Ràjà, magro, scuro di pelle, dai capelli unti e le labbra bluastre.

Mi aveva mostrato la foto della figlia, una bimba di sei, sette anni, scura scura pure lei, magra scheletrica, dal collo sottile, i capelli arruffati, la bocca larga e gli occhi attoniti. Gli occhi tristi di un’adulta. Si chiamava Shalimeh e assomigliava a tutti i piccoli mendicanti indiani, scalzi e affamati.

Ad Amineh piaceva dormire, d’un sonno profondo che poteva durare anche dieci ore, come coma. Al mattino s’alzava inebetita e pesta, sembrava facesse ritorno da un altro mondo, e con aria desolata trascinava il suo corpo intorpidito da una stanza all’altra. Era su un altro pianeta, ci metteva parecchie ore per riordinare le idee. Bisognava darle qualcosa di pratico da

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