Hanging Man by Martin Barnaby

Hanging Man by Martin Barnaby

autore:Martin, Barnaby [Martin, Barnaby]
La lingua: eng
Format: epub
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


SECONDA PARTE

Capitolo 5

Sono le cinque di mattina quando mi sveglio, ritrovandomi nel dormitorio dell’ostello della gioventù a Pechino. Risento del cambiamento di fuso orario, ma constato con piacere che sono di buonumore. Ancora nel letto, ripensando all’incontro di ieri, mi dico che, considerando tutto quello che gli è successo, Ai Weiwei si trova in buone condizioni, abbastanza in forma, o perlomeno più in forma di quanto mi aspettassi. Mi dico anche che l’intervista di ieri è andata molto bene. Ma, in realtà, la ragione principale del mio buonumore è il fatto di sapere che, se stamattina riuscirò a varcare la soglia della casa di Ai Weiwei, sarà l’ultima volta che dovrò sottostare alla sorveglianza della polizia e affrontare l’atmosfera intensamente claustrofobica che si respira in quel luogo. Dopo questo incontro partirò direttamente per Hong Kong.

Faccio la doccia, mi vesto e ripongo con cura il mio computer e gli altri oggetti di valore in uno zainetto. Non voglio lasciare nulla nel dormitorio, non perché non mi fidi dei miei compagnons de route, ma perché credo che sia probabile che verrà perquisito. Esco nel corridoio, chiudo delicatamente la porta e poi mi giro dall’altra parte. Per un attimo sono preso dal panico. In fondo al corridoio, che è lungo una quarantina di metri, l’aria è velata da una sottilissima cortina di fumo grigioazzurro. È scoppiato un incendio nell’albergo. Devo far suonare l’allarme. Mi metto a correre e scendo in un lampo le scale ritrovandomi nella hall. Non c’è nessuno. Non vedo da nessuna parte l’allarme antincendio. Decido di aprire l’enorme porta doppia per suonare il campanello; in questo modo sicuramente qualcuno si sveglierà. Armeggio un po’ con la sbarra che tiene chiusa la porta e finalmente riesco ad aprire. La porta si affaccia sugli hutong, ancora tranquilli. Smog. Una spessa coltre di smog, della stessa consistenza e dello stesso colore bianco di un falò appena acceso, è sospesa nell’aria e si attorciglia attorno alle cime degli alberi. Uno smog talmente denso da essersi infiltrato nei corridoi dell’albergo. Lo smog di Pechino è di un colore bianco latteo, spettrale; si riesce quasi a immaginare di poterlo toccare e rimestare con un grande cucchiaio. Era da quando mi trovavo a Giacarta, nel 1997, che non vedevo un inquinamento simile: il sottobosco delle foreste pluviali aveva preso fuoco e gli strati di carbone sotterranei ardevano senza tregua, raggiunti dalle fiamme appiccate da quei coltivatori senza scrupoli che, ogni anno, distruggono milioni di ettari di foresta vergine, abbattendo e bruciando gli alberi per trasformarli in gomma e olio di palma. In quel periodo, a Giacarta, la gente andava in giro con il volto coperto da mascherine – alcuni le indossavano anche al chiuso – ma qui a Pechino nessuno sembrava preoccuparsi più di tanto. Se ne vedevano pochissime.

Sono le cinque e mezzo di mattina. Le strade sono relativamente poco trafficate. Chen Fei, il vecchio venditore di pane che assomiglia a una radice di ginseng in canottiera e pantaloncini, con pochi ciuffi di capelli bianchi sulla sommità della testa, mi saluta mentre esco dall’ostello e richiudo il portone alle mie spalle.



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