I miei mari by Folco Quilici

I miei mari by Folco Quilici

autore:Folco Quilici [Quilici, Folco]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2012-04-03T07:52:13+00:00


Nel 2004, a un’intensa attività del vicino Stromboli corrisponderà una violenta crescita di queste collane di gas, riflesso del maremoto allargatosi dal vulcano in eruzione di Stromboli, con un mini-tsunami giunto sino alla costa italiana. Futura violenza inimmaginabile nei giorni delle nostre perlustrazioni subacquee. È cristallina l’acqua tutt’attorno a noi, è allegro il fluire delle collane gassose verso l’alto, miriadi di bolle dissolte, svanite nell’acqua prima di raggiungere la superficie.

Con un’occhiata al geologo, chiedo di guidarmi sino alle bocche di fuoriuscita del gas, di azzardare un’intrusione nei piccoli crateri dove una parte dello zolfo eruttato diventa solido, bianca sostanza colloidale.

Nella bocca d’una grotta dalle pareti al confine tra mondo sotterraneo del fuoco e regno del mare e del silenzio, ho acceso il flash e illumino il palpitante diaframma di materia colloidale. Sembra il tessuto connettivo di un essere che respira.

I miei movimenti finiscono per accelerare la mutazione delle bolle di zolfo, il gas mi si materializza tutt’attorno in «fiocchi di neve» fitti e turbinosi, lasciandomi immaginare d’essere coinvolto in una tormenta invernale.

A breve distanza dalla zona di degassamento si trova la miniatlantide delle Eolie, rovine dell’evento geologico accaduto qui, nel tratto di mare compreso tra Iera e Uo-nimus, cioè tra Vulcano e Panarea, nel III secolo della nostra era, citato da Strabone come «catastrofe vulcanica».

Raggiunta l’area, cerchiamo di identificare resti di camere, celle, muraglie; ma per vedere e documentare con immagini evidenti, dobbiamo ripulire dalla vegetazione queste rovine. Solo dopo la fatica d’un paio di giorni appaiono strutture murarie, blocchi giustapposti, cementati da malta; nelle pareti sono visibili canali di conduttu-ra, evidenti resti di un sistema molto diramato per far circolare acqua calda. Quando quest’area non era sommersa, sorgeva qui non solo un centro abitato, come provano la villa romana e il porto oggi coperto dalle acque nella vicina isoletta di Basiluzzo, ma anche uno stabilimento termale. Tra quanto ne resta, vedo uno spazio ben delimi-tato che reca al centro i resti di una vasca. Mi ci sdraio per immaginare il tempo cui vi si raccoglievano acque calde, solforose, curative. Da amiche mutate in ostili e distrut-trici nel momento in cui la massa di fuoco che le alimentava s’è espansa ed è esplosa.

Apocalissi geologiche capaci di cancellare non solo un piccolo centro abitato, qual era probabilmente quello sorto di fronte a Panarea, ma grandi città o un’intera civiltà.

Solo un’altra forza è altrettanto distruttiva: lo tsunami portato dalle armi può creare un’Atlantide in più nella mappa dei mondi inghiottiti e scomparsi nel nulla. Come la città e l’impero di Cartagine.

Un altro capitolo del mio lavoro nel Mediterraneo.

Ceneri e dei infuocati

Tra Cartagine e Mozia, aprile 1987

«Lì erano le banchine del porto, loro lo chiamavano còton. Nei suoi due specchi d’acqua ormeggiavano le navi da guerra e i gauloi mercantili. Al centro un edificio da noi oggi definito Ammiragliato.»

Seguo il gesto della sua mano, punta un dito verso il nulla: stagni immobili e una colonna spezzata, distesa tra erbe rinsecchite. Qui sorgeva Cartagine? Qui un porto per oltre duecento navi, carico e scarico



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