icerbox Giacpini fuga by Unknown

autore:Unknown
Format: epub

7. A Reykjavík: le notti bianche

Il campione inaffidabile

Loro malgrado, non avevano scelta. Il centralismo democratico c’entrava abbastanza poco, questa volta. Grigi burocrati di partito o politici astuti e raffinati, futuri alfieri della perestrojka o vecchie cariatidi staliniste, almeno su una cosa si ritrovano tutti abbastanza d’accordo, controvoglia. La disfatta di Petrosjan segna la fine della guerra di posizione, degli indugi. Adesso che erano cadute tutte le resistenze e le ultime trincee erano state invase dal nemico, non c’era altro da fare che puntare su quella carta truccata, rischiosissima. Almeno in questo, quel pallone gonfiato di Pavlov poteva contare su un consenso diffuso. Agli occhi di Mosca Spassky era un genio inaffidabile. Il «Memoriale segreto» esprimeva un punto di vista condiviso: «al momento attuale il Grande Maestro Spassky, trentaquattro anni, […] non ha ancora esaurito le sue potenzialità. A causa dell’infanzia difficile e delle lacune educative, Spassky tende a essere poco critico nei confronti dei propri comportamenti, rilascia dichiarazioni immature, infrange il proprio regime e non si applica a sufficienza. Alcuni, sia in patria che all’estero, cercano di esacerbare questi suoi difetti spingendolo a adottare atteggiamenti megalomani […] alimentandone lo spirito già fin troppo malsano di mercenario».

La sua infanzia difficile, un’educazione incompleta, quelle dichiarazioni imbarazzanti. Andavano allo scontro finale con qualche riserva di troppo e tonnellate di torvo rancore malcelato. Lui, d’altronde, non faceva niente per smentirli. Il ragazzo di Leningrado era tutt’altro che un «cittadino modello», un bravo pioniere tutto partito, scacchiera e libri sacri. Figlio di un prete, Boris adorava spiazzare quei preti in divisa o in doppio petto con le sue boutades solo apparentemente ingenue, un po’ distratte. Aveva cominciato prestissimo, quando era ancora un moccioso scapestrato. Ad Anversa, per esempio – all’indomani della morte di Stalin e non per caso –, aveva chiesto con finta ingenuità al commissario politico che gli faceva da chioccia nei primi tornei all’estero se fosse proprio vero che «il compagno Lenin era morto di sifilide». Oppure in Argentina, pochi anni dopo, col suo rifiuto di riferire incontri, contatti e circostanze ai cosiddetti compagni dell’ambasciata («andateci voi» dice ai colleghi più anziani «sono cose della vostra generazione, per me certe regole mica valgono sul serio»). Ma era sempre la stessa musica, una costante. Anche adesso che era il campione del mondo sovietico insisteva a fare di testa sua, ostinatissimo. A trent’anni passati, l’orgoglio di Mosca non aveva ancora preso la tessera del Pcus (e se ne vantava). Quando parlava alla stampa era sempre imprevedibile, caustico, spiazzante. Candidamente, Boris confessava una grande passione per Dostoevskij e la sua nostalgia per un’infanzia passata in mezzo alla puzza di incenso tra candelabri dorati e vecchie icone («se non fossi stato uno scacchista non mi sarebbe dispiaciuto fare il pope»). Anche politicamente, sapeva essere irregolare e faceva scelte avventate, bizzarre, anomale, talvolta oggettivamente coraggiose. La sua decisione di andare a giocare nei circoli di Praga dopo la «primavera» e i carrarmati aveva profondamente irritato i vertici sportivi e la nomenklatura brežneviana. Solo due anni dopo, il netto

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