icerbox Sgggio Leredita by Unknown

autore:Unknown
Format: epub

Grandi cerotti

Mia madre aveva incontrato per la prima volta mio padre al bar Campari, in piazza, frequentando un gruppo di coetanei ad Arzignano. Ne restò folgorata. Le piacque subito e pensò: questo ragazzo diventerà mio marito. Ogni volta che me lo raccontava rideva: ci aveva visto giusto, che bello; ma ci era cascata, che scema. Qualche tempo dopo, un amico comune andò a dirle che Renzo avrebbe voluto conoscerla. Mia madre rispose piccatissima: «Ma il tuo amico Renzo non è capace di venire qua da solo?» Renitente. Ma seduttrice.

Al bar Campari andava anche lei, anche se non è che godesse di chissà quale libertà; non è che potesse uscire con gli amici quando le pareva.

Nonostante tutto, però, il Veneto degli anni Sessanta faceva meno paura ed era meno triviale e sguaiato di quello di adesso, se non altro per il fatto che pagava il suo tributo alla centralità civile del sindacalismo cattolico che usciva dalla Resistenza. I miei nonni avevano capito che la loro prima figlia era grande abbastanza, che il mondo stava cambiando.

Durante la guerra, i genitori di mio padre erano stati collaborazionisti dei nazifascisti. Mia madre aveva saputo che i nazisti avevano requisito la loro casa per farne il comando delle SS, ma io non ho trovato conferma in nessuna fonte. In paese la famiglia Sgaggio non era molto amata. A Rosa avevano raccontato che mio nonno, caporeparto alla fabbrica Pellizzari di Arzignano, aveva denunciato alle autorità naziste alcuni operai che avevano indetto uno sciopero contro la deportazione in Germania di una parte dei lavoratori. Quegli operai vennero fucilati. Ho trovato traccia di un unico evento a cui questo racconto potrebbe riferirsi. Risale al 30 marzo 1944, giorno in cui quattro operai vennero effettivamente fucilati. Fra le persone indicate come spie fasciste locali risulta, da più documenti, un certo Mario Sgaggio. Ma mio nonno si chiamava Ferruccio.

Non so se sono le fonti a fare confusione fra i nomi di battesimo. Potrebbero anche essersi sbagliate le persone che parlarono con mia madre, magari perché davano voce a vendette di paese. O forse il nome di battesimo del traditore era poco importante, perché – tanto – il prezzo del suo gesto l’aveva già pagato, e la storia de minimis non curat.

Io, comunque, ho passato la vita sapendo che mio nonno era responsabile della fucilazione di alcuni suoi colleghi.

Se fu veramente mio nonno a dare agli occupanti tedeschi i nomi degli operai che scioperarono, io vorrei poter chiedere scusa alle persone che li hanno amati.

Dopo la guerra, a sentire la gente di Arzignano con cui mia madre parlò, arrivarono le rappresaglie. Mio nonno venne colpito con un tirapugni che gli fracassò il naso e le ossa del volto. Forse il tumore che lo uccise nacque da quel pugno distruttivo; questa, almeno, era la storia che si raccontava in famiglia.

Mia madre mi diceva inorridita che il suo volto era sfasciato – io stessa ne conservo una vaga e inquietante memoria, e in giro c’è qualche fotografia nella quale, al di sotto della montatura grossa e nera degli occhiali, ci sono grandi cerotti.

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