Il tempo delle stelle by Massimiliano Virgilio

autore:Massimiliano Virgilio [Virgilio, Massimiliano]
La lingua: ita
Format: epub
editore: RIZZOLI LIBRI
pubblicato: 2023-01-04T12:00:00+00:00

Giuseppe scoppia a ridere, il carabiniere lo osserva perplesso.

«Che significa?» gli chiede. «Perché ridi?»

«C’è scritto “Non si sa mai”.»

«Lo so, ma che vuol dire?»

Giuseppe si infila il biglietto in tasca. «È la battuta di una commedia di Eduardo De Filippo. Si chiama Io, l’erede. La conosce?»

«No.»

«La guardavamo sempre quando mia madre era ancora viva» continua Geppe. «Guardare quelle vecchie commedie in tv era l’unica cosa che facevamo insieme.»

Adesso, seduto nel suo studio con la finestra spalancata, Giuseppe teneva tra le mani il biglietto rovinato che Mariano gli aveva lasciato un quarto di secolo prima – Non si sa mai – provando una sensazione di estraneità verso Donnafugata, verso il giardino di gerani, verso la camera da letto in cui Lara si era rintanata dopo la loro discussione, verso la sua stessa esistenza.

Piuttosto sentiva di appartenere a quel foglietto ingiallito e a tutti i foglietti ingialliti del mondo, a quella grafia incerta e schiva, ai bloc-notes rubati in banca, persino alla tavola traballante della cucina nell’appartamento di Fuorigrotta su cui suo padre aveva scritto il messaggio prima di sparire. All’improvviso, Giuseppe capì di odiare molte cose.

Odiava l’assassino del piccolo Giuseppe per aver sprecato la possibilità di essere un padre.

Lo odiava per essersi insinuato nelle sue giornate.

Ne odiava la faccia, le sopracciglia curate, i capelli ingelatinati, la fotografia su Facebook – ripresa da quotidiani e siti internet – in cui sfumacchiava uno spinello; lo odiava per i tatuaggi, per la gioventù. Giuseppe ne odiava l’estetica ancor prima del delitto che aveva commesso.

Lo odiava perché, nonostante gli sforzi compiuti per sfuggire a una vita da randagio, quella vicenda gli rammentava di venire dalla feccia e che alla feccia era destinato a tornare. Il meticoloso lavoro con cui, attraverso i decenni, si era guadagnato il diritto a considerare la propria esistenza come una realtà concreta e non una farsa si sbriciolava al cospetto dell’omicidio di Cardito.

Lo odiava perché con lui sentiva di avere più cose in comune di quante ne avesse mai avute con Lara. Lo odiava al punto tale da non riuscire a smettere di volergli infliggere una punizione.

Molti anni prima, mentre si preparava all’esame da giornalista professionista, lesse che uno dei metodi usati ad Abu Ghraib per torturare i prigionieri consisteva nel mandare ad alto volume da un altoparlante le grida di un neonato che piange. Nessuno può sopportare all’infinito il pianto di un bambino senza impazzire.

Immaginare quella scena lo faceva stare meglio. Sarebbe stata la giusta pena per l’assassino di Giuseppe.

E poi odiava suo padre per l’uso della parola “raptus”. Un uso da leguleio, lontano da ogni conoscenza analitica di sé e delle ragioni che conducono un uomo alle soglie di un rapimento mistico – il raptus, secondo l’etimologia latina, è del violento ma anche dell’artista al culmine dell’ispirazione poetica – come se l’azione brutale fosse stata ordita da forze misteriose nascoste in profondità, troppo per essere imputabili a colui che la compie.

Odiava Mariano per aver incendiato il suo immaginario. Per aver acceso in lui un desiderio di paternità basato sulla volontà di dimostrarsi migliore.

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