Il volto e l’anima della natura by Flavio Caroli

autore:Flavio Caroli [Caroli, Flavio]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788852010750
editore: Mondadori
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00

Poi arriva Francesco Guardi (1712-1793), e nulla cambia perché tutto cambi. Per lungo tempo, Francesco è un genio schiacciato dagli eventi, che si dedica alla pittura di vedute solo oltre il quarantesimo anno di età, legato com’è alle «figure» che gli vengono imposte dalle commissioni assunte dal fratello Gianantonio, grande protagonista della pittura rococò.

Siamo in un mondo artigianale. Il gran giro mondanointernazionale di «conoscitori» che ruota intorno al console Smith (nobile protettore di Canaletto) è assai lontano, come dimostra l’agghiacciante mancanza di citazioni sull’opera dei fratelli Guardi, che oggi giudichiamo fra i maggiori artisti della loro epoca.

Francesco si sposa nel 1757, a quarantacinque anni, proprio nel tempo in cui comincia a prendere corpo la sua vena vedutistica; ed è nostra convinzione che la scelta di rompere con il celibato e con l’egemonia di Gianantonio facciano parte della stessa ribellione a un’esistenza senza sbocchi. Finché, tre anni dopo, nel 1760, Gianantonio muore, e la vita cambia veramente. In sintonia quasi perfetta con l’affrancamento conseguente alla morte del fratello, Francesco concepisce la Piazza San Marco, conservata a Edimburgo, che resta il dipinto più sconvolgente del «vedutismo» prima dell’arrivo di Constable e Turner.

Se fino a questo momento il problema di Francesco Guardi è stato quello di lottare contro il rococò del fratello-padrone Gianantonio, in nome dell’«illuminismo» di Canaletto, adesso l’artista sembra intenzionato a far avanzare il discorso di un passo risolutivo. Acquisite le idee chiare e distinte di Canaletto, e in omaggio postumo alle trep idazioni non futili del fratello, il problema diventa quello di andare oltre il primo in nome del secondo. Si tratta di essere assolutamente veri, se vogliamo «oggettivi», senza perdere una sola stilla delle pulsazioni e dei tremori trasmessi dal visibile. È necessario capire che l’«oggettività», cioè l’essenza del mondo, non vive di depauperamenti, ma va inseguita al massimo della sua opulenza, nel tentativo forse disperato, certo inebriante, di assaporarne i barbagli più sontuosi, razzanti, corsivi, ma nello stesso tempo depositati in una visione meditata ed eterna.

Anzitutto, bisogna affrontare il dialogo fatale dell’ombra e della luce, che annega mezza piazza nell’oro pomeridiano, sfrangiando le figure nell’atmosfera, e struggendole nel chiarore tanto più quanto più si distanziano nell’affondo prospettico, al punto che sarebbe possibile misurare in metri o in decimetri la quantità d’aria che le separa da noi; mentre l’altra metà del vano spaziale beve l’opacità della non-luce, e ne carpisce tuttavia il riverbero grazie alle strisciate bianche sulle Procuratie Nuove (intuizione degna di un lontanissimo Seurat), e sui vestiti delle dame che conoscono, ormai esplicitamente, il senso delle ombre colorate, poi fondamentali per la pittura impressionista.

Da qui nasce il diverbio diremmo planimetrico della luce con le architetture, che suggerisce al pittore di modificare le proporzioni del campanile rispetto a una veduta consimile realizzata anni prima, e schiaccia al suolo, nel glaucore universale, la mole di San Marco. Ciò che causa la rissa fra la terra e il cielo, come facce complementari dello stesso sogno o dello stesso incubo, con un protagonismo dell’azzurro che rende vane e flebili, ancorché dolcissime e appaganti, le chiacchiere dei veneziani in una bella giornata di primavera.

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