La cangura by Juz Aleskovskij

La cangura by Juz Aleskovskij

autore:Juz Aleskovskij [Aleskovskij, Juz]
La lingua: ita
Format: epub
editore: VOLAND
pubblicato: 2015-02-15T23:00:00+00:00


10

All’improvviso Černoljubov urla a tutta la nostra topaia:

– Compagni! Pericolo a sinistra! Preparate le catene! Ai posti di combattimento!

Ah, Kolja, mi sono dimenticato di dirti che eravamo tutti in catene. Non sono granché pesanti, ma gravano l’anima di una disperazione di ferro. Facciamo la guerra ai ratti. Ne accoppiamo otto. Due in più della norma. Gazzarra, le catene tintinnano. Tutti esultano per il buon lavoro. Strepitano. Sorridono. Dispongono i ratti sui sassi e si mettono a battezzarli: Martov, Aksel’rod, Berdjaev, Bogdanov, Fedotov, Mach, Florenskij, Avenarius, Nadson, e il ratto più grosso lo rattezzano, scusa il calembour, Vyšinskij. Černoljubov propone subito ai compagni di organizzare una giornata lavorativa di 24 ore in onore della Festa degli Insegnanti e aumentare l’impegno di ammazzare Jean-Paul Sartre, l’inafferrabile capo dei ratti galeotti, in tempo per il compleanno di Stalin. I detenuti mi avevano raccontato leggende su quel ratto. Era enorme e furbo. Attaccava senza far rumore. Mordeva esclusivamente le caviglie e fuggendo gli piaceva dare scudisciate con la sua fredda lunga coda. Vedeva benissimo nel buio più pesto, anche se correva voce che avesse una cataratta a un occhio.

Vedi, Kolja, che razza di galera ha inventato Berija per i vecchi bolscevichi!? Da mattina a sera guerra ai ratti, che ce n’era un fottio in miniera. E per di più, ripeto, guerra nel buio totale. Da dove venivano quegli infami? Anche su questo circolavano leggende. Secondo me è perché vicino al nostro campo c’era un’infermeria e lì attaccato un cimitero. Più che un cimitero, una discarica di detenuti morti. Era là che i ratti si abbuffavano, poi per svago correvano nella nostra topaia attraverso chissà quali cunicoli sotterranei. Per gioco. Un gioco pericoloso, ma ai ratti piaceva. Si vede che anche in natura non si può fare a meno di giocare. C’è pure una teoria su questo. Non smettevo di stramaledirmi, Kolja, per essermi fatto rinchiudere in quella topaia. Lo sai anche tu che una sentenza è sempre una sentenza, ma si deve pur aspirare alla libertà. Che differenza c’è tra noi e i pitoni e gli ippopotami dello zoo? Che noi sappiamo esattamente quanto dobbiamo stare dentro. Anche se prima del ripristino delle cosiddette norme di Lenin sulla legalità pure noi non lo sapevamo, era proprio un mistero.

Prima di tutto imparo a vedere nel buio. È stato facile. Lo sai che mi piaceva leggere in treno e una volta ho letto che gli uomini nei meravigliosi tempi preistorici avevano un terzo occhio. Da qualche parte tra il cervello e la spina dorsale o forse sulla nuca. Il buio pesto, anzi, il nero della tenebra, mi tormentava terribilmente, il freddo poi mi stroncava l’anima, Kolja. È chiaro che ti ci abitui a un buio simile, a tastoni ti reggi in piedi, cammini, ammazzi il tempo, ciarli, stordisci i ratti, e non ti rimane proprio nient’altro da fare, ma che noia mortale, Kolja! Che noia mortale! E allora mi dico: “Tu, Fan Fanyč, devi sconfiggere la tenebra del momento e allo stesso tempo anche la necessità



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