Meno letteratura per favore! by Filippo La Porta

Meno letteratura per favore! by Filippo La Porta

autore:Filippo La Porta [Porta, Filippo La]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bollati Boringhieri
pubblicato: 2010-10-25T22:00:00+00:00


Altri reportage: Leogrande, Messori, Doninelli, Balestrini, Bettin

Ma se la tendenza, o meglio la coazione, dell’epoca, è quella alla trasformazione di tutto in fiction, almeno dobbiamo pretendere che si tratti di buona fiction, fatta cioè con sapienza retorica, probità intellettuale, abilità artigianale. Penso alla grande tradizione americana del new journalism (celebrata trentacinque anni fa da Tom Wolfe in un polemico manifesto), dei Capote, Mailer, e poi Talese e Langewiesche, che nasce da un’intuizione di fondo: la realtà ha bisogno di essere messa in scena. Altrimenti resta opaca, inanimata. E per metterla in scena occorre non tanto infiorettarla di aggettivi e metafore o renderla «intrigante», quanto padroneggiare le tecniche e strategie della narrazione. La linea rossa che separa la cattiva letteratura (mascherata da informazione) da un onesto e immaginativo giornalismo narrativo è sottile. Segnalo alcuni libri italiani recenti che mi sembrano esemplari.

A leggere Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi delle campagne del Sud (Mondadori, Milano 2008) di Alessandro Leogrande - un reportage sui lavoratori immigrati del Tavoliere pugliese - viene da pensare con ironia a tutte le diagnosi sulla fine del lavoro, sull’espansione del «cognitariato», sul trionfo dell’immateriale (da Rifkin a Toni Negri). In realtà l’economia globale si regge in gran parte sullo schiavismo, sulla compravendita dei corpi, sull’impiego illegale di manodopera. I nuovi schiavi sono i migranti nel nostro paese - dall’Africa e poi dall’Est europeo -, irreggimentati entro un sistema feroce, insieme efficiente e primitivo. Il metodo d’inchiesta di Leogrande si muove tra osservazione empirica, interviste, raccolta di dati, testimonianze, e anche certe illuminazioni molto soggettive. Nelle pagine finali Leogrande, tornato alla masseria dei nonni, guarda il paesaggio desertificato ed è colpito dal silenzio, dall’assenza dell’uomo, «della lotta e del suo ricordo», dalla sconfitta di chi - proprio come l’autore stesso - ha deciso di vivere altrove. È in gioco la capacità del nostro paese di elaborare il passato (la fine della civiltà contadina), di capire come quel passato apparentemente sepolto (fatto di supersfruttamento e di esclusione) vive dentro il presente, senza neanche più la sua contropartita «utopica» (la saggezza arcaica della civiltà contadina). È in quel momento che l’autore, come in un dormiveglia allucinato (e forse solo con un pizzico di intenzione «letteraria» in più), rivede i morti, «i caduti di tutte le guerre dei campi», che arrivano fino a lui e poi se ne vanno via senza voltarsi: «ritornano al loro Ade rupestre, in silenzio, quasi ondeggiando». Il reportage di denuncia finisce così in una visione nera che sembra provenire dall’Eneide virgiliana.

«Mi piace mettermi a leggere sdraiato sul divano. E mi piace quando Ljuda s’intrufola tra me e il libro per farsi abbracciare». Nella città del pane e dei postini (Diabasis, Reggio Emilia 2005) di Giorgio Messori, prematuramente scomparso, è un reportage in forma di diario su una esperienza lavorativa a Tashkent, ma anche una delle più belle storie d’amore della narrativa di questi anni. L’autore va a lavorare per un periodo all’Università delle Lingue mondiali a Tashkent, la più grande città dell’Asia centrale e capitale dell’Uzbekistan.



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