Mia lingua italiana by Gian Luigi Beccaria

Mia lingua italiana by Gian Luigi Beccaria

autore:Gian Luigi Beccaria [Beccaria, Gian Luigi]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788858436721
editore: Einaudi
pubblicato: 2021-03-31T12:00:00+00:00


I dialetti, dicevo. Oggi, dopo essere stati per secoli la lingua materna degli italiani, il loro uso è fortemente in calo. Stendhal aveva annotato (1817) nei Voyages en Italie che in tutte le parti del paese «ci si serve sempre dell’antico dialetto locale e parlare toscano nella conversazione risulta ridicolo». Sullo scoglio di Quarto erano tanti a parlare bergamasco. «Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i piú» è la prima impressione di Giuseppe Cesare Abba appena a bordo del Lombardo; e annoterà in seguito (Brescia 15 maggio 1893) che i carabinieri genovesi a Calatafimi, marciando per la valle, «parlavano il loro dialetto che a momenti scatta di collera, ed era cosí caro e parlato cosí volentieri da Garibaldi, che l’addolciva, mentre sulle labbra di Nino Bixio guizzava come la saetta»85. Ci si affidava come sempre, per la comunicazione orale, alla vitalità piú immediata del dialetto piuttosto che incespicare con un italiano insicuro: nelle Ore di città (siamo a fine Ottocento) Delio Tessa ricorda le difficoltà dei vecchi milanesi a manovrare la lingua nazionale: «Non sapevano bene che il loro milanese e nei discorsi d’impegno camminavano guardinghi ai margini di un loro italiano milanesato e di tanto in tanto perdevano l’equilibrio e sdrucciolavano nel dialetto»86. Quando poi avvenivano incontri tra italiani di regioni e lingue materne assai lontane, si aveva l’impressione di una estraneità sconcertante. Come ha sottolineato Lorenzo Tomasin nel suo lavoro Taliano: il coro dei dialetti (in stampa) il verbo italianizzare nei vocabolari dialettali del secondo Ottocento (piem. italianisé ‘affettare costumi e accento italiani’, lig. italianizzâ, bologn. italianizar, romagn. itaglianizé, sic. italianiz(z)ari) allude a un’affettazione di modi italiani percepita come innaturale, dando tra l’altro voce a un sentimento negativo dell’identità nazionale, quella che percorre spesso anche la cultura letteraria del tempo.

Molto probabilmente, ai tempi delle celebrazioni dell’Unità italiana, gli incontri mondani nei salotti delle città di provincia meridionali avvenivano come con le parole del protagonista ce li ricostruisce Anna Banti nel romanzo Noi credevamo87, cui si è liberamente ispirato il recente film di Martone:

Mai vidi gale piú goffe e grottesche di quelle con cui, dopo il plebiscito, si pretendeva celebrare, nel sud, l’unità italiana. Nere giamberghe stazzonate, dorature militari, broccati dei tempi di Maria Carolina, dimostravano a esuberanza la difformità dei costumi, dei caratteri, della storia che ogni invitato recava con sé, irrimediabilmente dipinta nei volti, nei gesti, nei tentativi di approccio; per non dire della lingua con cui le conversazioni si avviavano e rimanevan sospese alla impossibilità d’intendersi e soprattutto di rispettarsi. […] l’imbarazzo dei notabili e delle loro donne era pari all’impettita alterigia degli ufficiali, sbalorditi e diffidenti, ristretti in gruppi, quasi a difesa. Nel frastuono delle voci meridionali, essi comunicavano fra loro cosí sommessamente da parer sordomuti che s’intendessero a cenni.



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