Mio fratello l'assassino di Trotskij by Luis Mercader & Germán Sánchez

Mio fratello l'assassino di Trotskij by Luis Mercader & Germán Sánchez

autore:Luis Mercader & Germán Sánchez [Mercader, Luis & Sánchez, Germán]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Political Science, General
ISBN: 9788802071602
Google: 7j3MAAAACAAJ
editore: Utet
pubblicato: 2005-03-15T00:00:00+00:00


Capitolo 7.

Da lungo tempo avevo in mente di scrivere un libro su Ramon e su mia madre. Pensavo di cominciarlo descrivendo il mio stato d’animo un certo giorno di primavera a Mosca. Credo che fosse il 22 maggio 1974. Erano circa le due del pomeriggio. Ero appena stato alla casa editrice «Comunicazione», (Sviaz), per consegnare l’originale del manuale da me scritto sui sistemi di comunicazione e collegamenti radio che stavano per pubblicare. Andai a piazza Kirov. Fino a poco prima era piovuto a dirotto, e adesso era scampato. I nuvoloni scuri del temporale si allontanavano velocemente. Il cielo diventava limpido, azzurro. Per le strade, rivoli d’acqua. Ero euforico nel camminare. Quel libro mi era costato grandi sforzi, e mi sentivo felice di averlo terminato. Decisi di non andare al lavoro, e tenermi il pomeriggio libero. Era da tempo che non vedevo Ramon, e decisi di andare a trovarlo. Salii al suo appartamento, suonai il campanello, lo chiamai da fuori della porta.

Nessuna risposta, nessuna reazione da dentro. Sapevo che era solo dal mese di gennaio, perché sua moglie e i figli erano andati all’Havana.

Dopo le sue progressive delusioni, le difficoltà di Roquelia nel vivere a Mosca, e i costi per i suoi frequenti viaggi in Messico, Ramon aveva cominciato a pensare seriamente che avessi ragione con le mie insistenze nel dirgli - come facevo da tempo - che per loro sarebbe stato meglio andare a stabilirsi a Cuba. Era amico di Castro, e non gli sarebbe costato nulla chiedergli questo favore(1). Infine, si era deciso a scrivere a Fidel, che gli aveva risposto immediatamente invitandolo a andare a vivere a Cuba. Ramon chiese l’autorizzazione al KGB. Ma questi gliela negò: a lui, eroe dell’Unione Sovietica. Decise quindi che gli altri, moglie e figli, per i quali non c’erano impedimenti, se ne andassero. Lui confidava che sarebbe finito col convincere gli uomini del KGB perché lo autorizzassero a partire. Restò quindi completamente solo, e così passarono alcuni mesi. Quel giorno di maggio, fuori del suo appartamento, continuai a chiamarlo, nella certezza che fosse in casa.

Finalmente udii venire dall’interno il rumore di passi lenti e pesanti che si avvicinavano alla porta. Questa fu aperta infine, e nel vano apparve Ramon. Era piegato su di sé, con una espressione di grande dolore sul viso. «Scusami» mi disse «ma mi sento molto male. Torno in camera». Gli andai dietro, meravigliato. Era una persona fisicamente assai forte, e non lo avevo mai visto malato. Camminando, si appoggiava alla parete. «Che cosa ti succede?» «Non lo so. Ho un grande dolore qui» e indicava la parte sinistra del petto, vicino alla spalla «Non so che cosa accade. Chiama un medico per favore, mi è molto faticoso respirare». Chiamai per telefono la clinica del Cremlino, alle cui cure lui, per il suo status, aveva diritto. Quasi subito arrivò una macchina con una dottoressa. Lo guardò, chiamò un’ambulanza e lo portarono al reparto di cure intensive. Lo accompagnai in ambulanza presso la stessa clinica che, per caso, stava a circa cinquecento metri da casa mia.



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