Pappagalli verdi by Gino Strada

Pappagalli verdi by Gino Strada

autore:Gino Strada
La lingua: ita
Format: mobi, epub
pubblicato: 2010-05-16T23:19:14+00:00


Il volo da Luanda a Kuito dura poco meno di due ore. Sul piccolo aereo siamo in quattro, c’è anche il mio amico Ezio. Mi sembra strano vederlo lì, l’ enfant gaté dal cuore grande. Ezio è teso, come sempre quando scopre qualcosa.

È la sua prima volta, in un paese devastato dalla guerra. Quando vive emozioni forti, Ezio parla un linguaggio ancestrale un misto di gramelot, tedesco, inglese e diosacosaltro. Così non lo capisco, mentre farfuglia indicandomi le rovine della città appena sotto di noi. Settantamila persone hanno vissuto lì, intrappolate in quelle case devastate dalle bombe. Dall’alto si possono contare i pochi tetti rimasti.

La provincia di Kuito, nel centro dell’Angola, per lungo tempo attraversata dalla linea del fronte tra le forze del Mpla e quelle dell’Unita, è una delle regioni più distrutte dalla guerra.

Camminare per Kuito è grottesco. I pali della luce storti o divelti, le strade piene di buche per i colpi di mortaio, edifici tagliati verticalmente in due, come le case delle bambole. Non c’è muro che non sia crivellato di proiettili. Il tutto farebbe pensare a un quadro astratto, a un violento collage di forme irregolari, se non fosse che la gente è ancora lì.

Tra le macerie vengono stese le lenzuola e gli abiti colorati dei bambini, le cui facce curiose spuntano di tanto in tanto, qualcuno risponde al nostro saluto.

Visitiamo quel che per decenza non si dovrebbe chiamare ospedale. Un edificio a tre piani, diroccato, luride stanze con teli di plastica blu che non lasciano filtrare la luce.

Sdraiati per terra, su pezzi di cartone e fetide coperte, ci sono i malati e i feriti, tra centinaia di mosche. C’è anche qualche donna che ha appena partorito, accanto a malati di malaria o tubercolosi, a mutilati, ad anziani ormai troppo anziani per sopravvivere.

C’è un ragazzino in un angolo, ha perso una gamba e fissa le garze intrise di sangue e di pus giallastro che gli fasciano la coscia. Come molti, aspetta di vedere se morirà, perché non ci sono medici né medicinali.

È tutto così surreale, mi viene da guardarmi alle spalle: che stiano arrivando i monatti a portarli via, questi sventurati?

In quelle stanze dormono e soffrono, e vanno di corpo, macerie di uomini e di case.

Al piano terra c’è la “cucina”, un falò che scalda il pentolone dove i malati che stanno meglio fanno bollire del riso per tutti.

Ogni tanto butto un occhio verso Ezio, lo vedo togliersi gli occhiali e stropicciarsi gli occhi come per scacciare lacrime piene di incubi.

Passiamo attraverso il campo profughi lì vicino, centinaia e centinaia di tende bianche, bambini che scorrazzano ovunque. Più di diecimila persone arrivate da sud, scappando alle cannonate. Hanno percorso centinaia di chilometri a piedi attraversando zone infestate da decine di migliaia di mine. Ce l’hanno fatta.

Molti altri sono morti durante l’esodo.

Altri ancora - e chi è il più sfortunato? - sono rimasti mutilati. Ora si trovano qui, a Kuito, in quello che chiamano il “centro di riabilitazione”. Non so quale imbecille europeo abbia appioppato questo nome



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