Pinocchio un libro parallelo by Giorgio Manganelli

Pinocchio un libro parallelo by Giorgio Manganelli

autore:Giorgio Manganelli
La lingua: ita
Format: mobi, epub
Tags: archivio ladri di biblioteche
editore: Adelphi
pubblicato: 2013-07-09T22:00:00+00:00


XIX

Pinocchio ritiene di essere ormai prossimo ad un rivoluzionario emendamento delle cose guaste; tra pochi minuti sarà ricco, di una ricchezza assurda, infantile, arrogante. Direi che Pinocchio coltivi, inconsapevolmente, la ambizione di far parte della élite vessatoria della città di Acchiappacitrulli. La sua fantasia è infantile ed enorme, e pare riandare all’esperienza della casa della Fata: vuole giocattoli e una libreria analfabeta, di canditi e cialdoni. L’accenno, curioso, alla libreria rimanda all’inizio dell’avventura delle monete d’oro: l’Abbecedario venduto, Geppetto d’inverno senza giacca; come già la prima volta, nel momento in cui si crede prossimo alla ricchezza, Pinocchio dimentica l’originaria destinazione di quelle vere e misurabili quattro monete; non pensa più alla «casacca d’oro e d’argento» per il vecchio babbo, né rammenta l’Abbecedario. Ed ora la fantasia di una libreria a quel modo pare una canagliesca beffa; non invano si va a spasso per quella arrogante capitale, Acchiappacitrulli.

Pinocchio è stato, finalmente, frodato; e mentre si gratta la testa davanti al campo deserto e indifferente, appare un altro personaggio pedagogico: un Pappagallo; a confronto con il Grillo parlante, ha questo di specifico: di essere un pappagallo spennato, un fallito, un clochard, una delle tante vittime di quella città arrogante, che ha avuto giusto la saggezza di appartarsi. Ridacchia distratto, il sardonico Pappagallo: ma Pinocchio è già in sospetto, ed è bizzoso. Dopo una nuova provocatoria risata il Pappagallo si fa esplicito: ride dei «barbagianni, che credono a tutte le scioccherie», Pinocchio sta per riconoscersi, e il pappagallo lo aiuta. Lo dice «dolce di sale» e gli dà un riassunto di saggezza lievemente sleale. Per guadagnare «onestamente» bisogna lavorare. Tuttavia non pare che l’accento cada su quell’«onestamente»; e che quello sia l’unico modo di guadagnare lo smentisce appunto la città vicina. Ma, per ora, Pinocchio da ricco putativo diventa povero autentico, come sempre era stato. Il Gatto e la Volpe lo hanno derubato. Pinocchio ha paura – paura del suo smentito mondo infantile. Non vuole credere al Pappagallo spennato: scava, scava, ma le monete sono scomparse. Ed allora tenta la sua prima sortita squisitamente sociale.

Disperato, torna in città e si reca dal giudice, gran scimmione «della razza dei Gorilla». Il giudice è la riprova del carattere profondamente teatrale della città di Acchiappacitrulli. Lo scimmione è un «carattere»: anziano, rispettabile; occhiali d’oro, senza vetri; gran barba bianca. Ora, questa è la seconda barba che incontriamo; la prima era quella «nera come l’inchiostro» di Mangiafoco, gran sovrano del teatro dei burattini. Mangiafoco è orchesco, ma alla fine si fa baciare sul naso, e dà le monete d’oro a Pinocchio. Derubato di quelle monete, il burattino chiede giustizia a questa candida barba, questo giudice saggio e buono, che lo ascolta con attenta benignità, si intenerisce e commuove; e quindi condanna il burattino – «questo povero diavolo» – alla prigione. Pinocchio è colpevole di furto subìto, non lieve reato, tuttavia si è costituito e pare pentito, infine, è incensurato. Ora Pinocchio è della stessa razza delle pecore tosate e delle farfalle mutilate. La condanna non è propriamente una punizione, è una collocazione, una classificazione.



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