Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila by Carlo Zanda

autore:Carlo Zanda [Zanda, Carlo]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Neri Pozza
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00

Corso Giulio Cesare, a Torino. L’officina Malabaila si trovava in un cortile dell’edificio al centro della foto.

Era agosto, stava ancora cercando il nome con cui firmare le Storie naturali, passò lì davanti e tra sé e sé pensò: «Perché no?». Dirà: «A me questo nome piaceva moltissimo, mi piaceva talmente che glielo ho rubato». Un’altra volta, molto dopo, gli domandarono se l’elettrauto l’avesse mai saputo. E lui: «Non lo so, non glielo ho mai chiesto… ho smesso di passare per corso Giulio Cesare».

Chissà se quel giorno, quando Levi prese la decisione, fuori dal negozio, magari a discutere all’ingresso con un cliente sulla opportunità di cambiare la batteria, c’era anche lui, Luigi Malabaila, per tutti «il signor Gino», appena tornato dal bar per il caffè e dall’edicola con La Stampa, in salopette da officina, massiccio e simpatico, proprio come quel divo dei varietà televisivi di gran moda a metà dei Sessanta al quale dicevano che assomigliasse molto, Gino Bramieri, il cui vero nome era peraltro lo stesso suo, Luigi. Erano anche quasi coetanei: il torinese Malabaila quarantatré anni da compiere l’11 dicembre, il milanese Bramieri pochi di più. E chissà se lì sul marciapiede c’era anche il piccolo Alberto, dieci anni, che approfittando delle scuole ancora chiuse teneva compagnia al padre e intanto faceva pratica di antifurto e impianti elettrici, nella prospettiva di un passaggio di consegne, mai avvenuto, alla guida della «ditta».

L’officina era diventata «sua» nel gennaio del 1961, non perché l’avesse comprata ma perché il signor Domenico, il vecchio titolare di cui era stato l’aiutante, andando in pensione gli aveva ceduto il contratto d’affitto. Un gesto di amicizia, un riconoscimento alla serietà sul lavoro di quel ragazzo taciturno, altruista, tipico piemontese di una volta. E così la vecchia insegna che recava il cognome del signor Domenico, un cognome impegnativo – BOCCACCIO, come l’autore del Decamerone – venne sostituita da un’altra con un altro cognome, MALABAILA, che ugualmente avrebbe trovato un suo posto, più modesto, nei manuali di letteratura.

Quel cognome era intrigante, nascondeva qualcosa, ma intanto c’era un altro motivo che rendeva quella scelta non banale, l’occasione per affermare qualcosa oltre che semplicemente assecondare una richiesta bizzarra. Perché, in fondo, che cosa è uno pseudonimo se non un biglietto da visita molto particolare, e molto personale, che permette a chi lo porta di mostrarsi nascondendosi, di comunicare senza dire? Che quel cognome indicasse un’officina, cioè un luogo attrezzato per effettuare lavorazioni artigianali e riparazioni, non era un dettaglio da poco dal punto di vista di Levi, senza contare che se si cerca sul dizionario si trova un’altra definizione non trascurabile di officina: «Luogo ove si producono opere culturali, ambiente in cui si temprano caratteri e ingegni»…

Quel cognome era insomma quasi un simbolo, almeno per chi lo aveva visto come minimo una volta passando per corso Giulio Cesare: il simbolo di una competenza tecnica, di un lavorare con le mani, di un’attività in cui pazienza, perizia e precisione contavano molto, un mestiere con diversi punti di contatto sia con il mestiere di chimico di vernici che con quello di Libertino Faussone, montatore di gru.

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