Racconti di demoni russi by Andrea Tarabbia

Racconti di demoni russi by Andrea Tarabbia

autore:Andrea Tarabbia [Tarabbia, Andrea]
La lingua: ita
Format: epub
editore: il Saggiatore
pubblicato: 2021-04-15T22:00:00+00:00


* Protagonista della commedia di Gogol’ Il revisore.

* Così nel testo.

Il fiore rosso

di Vsevolod Garšin

Alla memoria di

Ivan Sergeevič Turgenev

i

«In nome di Sua Altezza Imperiale Pietro i, sovrano e imperatore, proclamo l’ispezione di questo manicomio!»

Queste parole erano state pronunciate con voce potente, austera e solenne. Lo scrivano dell’ospedale non riuscì a trattenere un sorriso mentre, seduto a un tavolo macchiato d’inchiostro, annotava il nome del malato in un grande registro logoro. Ma i due giovani che avevano accompagnato l’infermo non sorrisero affatto: a stento riuscivano a reggersi in piedi, dopo aver passato due giorni senza chiuder occhio in compagnia di quello squilibrato, condotto sin lì col treno proprio in quel momento. Alla penultima stazione aveva avuto un attacco di follia più intenso; avevano rimediato una camicia di forza e, chiesto aiuto al conducente e a una guardia, l’avevano fatta indossare al malato. Ecco come l’avevano portato in città e sin lì, in ospedale.

Il malato era terrificante. Sopra il vestito grigio, laceratosi durante l’attacco furioso, la camicia, di una ruvida tela e con una grande apertura, fasciava la sua figura; le lunghe maniche che costringevano le braccia in croce sul petto erano annodate sulla schiena. Negli occhi, tumefatti e sgranati (erano dieci giorni che non dormiva) ardeva un immobile lampo di fuoco; uno spasimo nervoso contraeva all’estremità il labbro inferiore; i capelli, mossi e scompigliati, ricadevano a zazzera sulla fronte; a passi rapidi e pesanti si spostava da un angolo all’altro dell’ufficio, ispezionando con occhio scrutatore i vecchi scaffali con gli incartamenti e le sedie ricoperte d’incerata e solo di rado si voltava a guardare i suoi compagni di viaggio.

«Accompagnatelo nel reparto. A destra.»

«Lo conosco, lo conosco. Sono già stato qui con voi l’anno scorso. Abbiamo fatto il giro dell’ospedale. So già tutto e sarà difficile imbrogliarmi» disse l’infermo.

Si girò verso la porta. Il sorvegliante la spalancò davanti a lui, quindi con lo stesso passo veloce, pesante e risoluto, tenendo ben alta la sua testa da squilibrato, se ne uscì dall’ufficio e, quasi correndo, prese a destra, verso il reparto malati di mente. A stento i suoi accompagnatori riuscirono a stargli dietro.

«Suona tu. Io non posso. Mi avete legato le braccia.» Il portiere aprì e i viaggiatori fecero ingresso nell’ospedale.

Era una grande costruzione in pietra, un vecchio edificio statale. Il piano inferiore era occupato da due grandi sale: una, la mensa, e l’altra un locale comune per i malati non violenti; vi erano inoltre un largo corridoio con una porta a vetri che dava su un giardino fiorito e una ventina di camere separate dov’erano alloggiati gli infermi. Sempre al piano terra vi erano anche due camere buie, una tappezzata con materassi e l’altra con tavole di legno, nelle quali venivano segregati i malati violenti, e un lugubre camerone a volte: la sala vasche. Il piano superiore era occupato dalle donne. Da lì arrivava sempre un fragore confuso, interrotto da ululati e lamenti. L’ospedale aveva una capienza di ottanta posti, ma essendo l’unico a servire anche le province confinanti, si arrivava ad alloggiarvi fino a trecento persone.



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