Trattato di storia delle religioni (2011) by Mircea Eliade
autore:Mircea Eliade
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bollati Boringhieri
107. I custodi dell’Albero della Vita
Il complesso uomo primordiale (o eroe) in cerca dell’immortalità-Albero della Vita-serpente o mostro custode dell’Albero (o che impedisce all’uomo con l’astuzia di mangiarne i frutti) si incontra anche in altre tradizioni. Il senso della coesistenza (uomo, albero, serpente) è abbastanza chiaro: l’immortalità si ottiene difficilmente; è concentrata in un Albero della Vita (o Fonte della Vita), in un luogo inaccessibile (dove finisce la terra, in fondo all’oceano, nel paese delle tenebre, in cima a un monte altissimo, o in un «centro»); un mostro (un serpente) custodisce l’albero, e l’uomo, che con molte fatiche vi si è avvicinato, deve lottare col mostro e vincerlo per impadronirsi dei frutti che danno l’immortalità.
La lotta col mostro ha, evidentemente, un senso iniziatico; l’uomo deve superare le sue «prove», diventare «eroe», per aver diritto all’immortalità. Chi non sa vincere il drago o il serpente non accede all’Albero della Vita, cioè non ottiene l’immortalità. La lotta dell’eroe col mostro non è sempre fisica; Adamo fu vinto dal serpente senza aver combattuto in senso eroico (come Eracle, ad esempio); fu vinto dall’astuzia del serpente, che l’aveva indotto a rendersi simile a Dio, l’aveva incitato a disobbedire al divieto divino, e l’aveva così condannato a morte. Beninteso che, nel testo biblico, il serpente non è il «custode» dell’Albero della Vita, ma, a giudicare dalle conseguenze della tentazione, gli si potrebbe attribuire questo compito.
Gilgameš, l’eroe babilonese, non fu più fortunato. Anch’egli voleva ottenere l’immortalità; afflitto dalla morte dell’amico Enkidu, si lamenta: «Dovrò anch’io coricarmi un giorno come lui, per non svegliarmi più?»1081 Gilgameš sa che un solo uomo al mondo lo può aiutare – il saggio Ut-Napištim scampato al Diluvio, al quale gli dèi hanno concesso l’immortalità – e si avvia verso la sua dimora, in un qualche luogo «sull’estuario dei fiumi». Il cammino è lungo, arduo, pieno di ostacoli, come tutte le strade verso il «Centro», il «Paradiso», o una fonte d’immortalità. Ut-Napištim abita in un’isola circondata dalle Acque della Morte, che l’eroe attraversa malgrado gli ostacoli. È giusto che, di fronte a certe «prove» cui Ut-Napištim lo sottopone, Gilgameš riveli la propria incapacità; ad esempio, non riesce a star sveglio sei giorni e sei notti di seguito. La sua sorte è già segnata: non otterrà la vita eterna, non può diventare simile agli dèi, perché gli mancano tutte le loro qualità.
Nondimeno, pregato dalla moglie, Ut-Napištim svela a Gilgameš l’esistenza, in fondo all’oceano, di un’erba «piena di spine» (cioè di difficile accesso) che, se non conferisce l’immortalità, prolunga all’infinito la gioventù e la vita di chi la mangia. Gilgameš si lega delle pietre ai piedi e scende a cercarla in fondo al mare; la trova, ne stacca un ramo, abbandona le pietre e risale alla superficie del mare. Sulla strada per Uruk si ferma a bere a una fonte; un serpente, attirato dall’odore della pianta, si avvicina e la inghiotte, diventando immortale. Gilgameš, come Adamo, ha perduto l’immortalità in seguito all’astuzia del serpente e alla propria stupidità. Come non aveva superato le «prove»
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