Una bellezza russa by Vladimir Nabokov;

Una bellezza russa by Vladimir Nabokov;

autore:Vladimir Nabokov; [Nabokov, Vladimir]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788845973994
editore: edigita


UNA BRUTTA NOTIZIA

Evgenija Isakovna Minc era un’anziana vedova émigrée che si vestiva sempre di nero. Il suo unico figlio era morto il giorno prima. Non glielo avevano ancora detto.

Era un giorno di marzo del 1935 e, dopo un’alba piovigginosa, una sezione orizzontale di Berlino si rifletteva nell’altra – zigzag variegati frammisti a superfici più piatte, e così via. I Černobyl’skij, vecchi amici di Evgenija Isakovna, avevano ricevuto il telegramma da Parigi verso le sette del mattino, e un paio d’ore più tardi era arrivata una lettera per posta aerea. Il capo della fabbrica dove aveva lavorato Miša annunciava che il povero giovane era caduto nella tromba di un ascensore dall’ultimo piano ed era rimasto agonizzante per quaranta minuti: benché privo di conoscenza, aveva continuato a gemere in modo straziante, senza interruzione, fino alla fine.

E intanto Evgenija Isakovna si alzò, si vestì, si gettò di traverso sulle spalle esili e ossute uno scialle di lana nera e si preparò un caffè in cucina. Si vantava dell’aroma penetrante e genuino del suo caffè con Frau Doktor Schwarz, sua padrona di casa, una «bestia avara e incolta»: era già una settimana che Evgenija Isakovna aveva smesso di rivolgerle la parola – e questa non era certo la loro prima lite –, ma, come diceva agli amici, non le andava di traslocare altrove per un insieme di ragioni, spesso elencate e mai noiose. Aveva un indiscutibile vantaggio su coloro con i quali avesse inteso rompere le relazioni, ed era il semplice fatto di poter spegnere il suo apparecchio acustico, un congegno portatile simile a una borsettina nera.

Mentre riportava il bricco del caffè in camera attraverso il corridoio, vide ondeggiare una cartolina che, spinta dal portalettere attraverso l’apposita fessura, andò a posarsi sul pavimento. Era di suo figlio, della cui morte i Černobyl’skij avevano appena saputo grazie a risorse postali più perfezionate, e pertanto le (in pratica inesistenti) righe che ora leggeva, reggendo il bricco nell’altra mano, ferma sulla soglia della sua camera ampia ma poco razionale, avrebbero potuto essere paragonate da un osservatore imparziale ai raggi ancora visibili di una stella ormai spenta. «Mia adorata Mulik,» (il nomignolo usato da suo figlio sin dall’infanzia) «continuo a essere sommerso di lavoro fino al collo e quando viene la sera casco letteralmente dalla stanchezza, e non vado mai da nessuna parte...».

A due isolati di distanza, in un appartamento altrettanto grottesco, zeppo di gingilli altrui, Černobyl’skij, che quel giorno non era andato in centro, percorreva a grandi passi una stanza dopo l’altra. Era un uomo grosso, grasso e calvo, con enormi sopracciglia arcuate e una bocca minuscola. Indossava un abito scuro, ma era senza colletto (il colletto rigido con la cravatta inserita pendeva come un giogo dallo schienale di una sedia nella sala da pranzo), e gesticolava disperatamente andando avanti e indietro: «Come dirglielo? Che preparazione graduale può mai esserci quando bisogna urlare? Dio mio, che disgrazia. Il suo cuore non reggerà, le scoppierà, quel povero cuore!».

Sua moglie piangeva, fumava, si sfregava il cuoio capelluto tra le



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