Una giovinezza nel ghetto di Varsavia by Alina Margolis-Edelman

Una giovinezza nel ghetto di Varsavia by Alina Margolis-Edelman

autore:Alina Margolis-Edelman [Margolis-Edelman, Alina]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Giuntina
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


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1 Nel 1970 l’organizzazione clandestina Ruch progettò di far esplodere il monumento a Lenin e quindi di dar fuoco al museo a lui dedicato, situato nella cittadina di Poronin, sui monti Tatra. L’iniziativa non ebbe seguito e l’organizzazione fu smantellata in seguito alle rivelazioni di un infiltrato. Nel 1990 il museo è stato chiuso e il monumento demolito.

La zona ariana

I signori Strabiński

La moglie del professore mi aveva dunque trovato una sistemazione nel quartiere di Ursynów, presso una famiglia di architetti. Uso il plurale perché lo erano entrambi. Nel periodo fra le due guerre lui era stato addirittura il primo architetto della città di Varsavia, o comunque uno dei primi.

Era bello, coi baffetti e l’inseparabile pipa. Lei era di poco più alta, magra, un po’ curva. I suoi movimenti erano veloci, efficienti. Aveva i capelli grigi, più grigi che scuri. La cosa che maggiormente si notava era il suo occhio sinistro, che a volte sembrava sfuggire all’esterno; non le capitava neanche sempre, ma sembrava strabica. Per questo motivo la denominai signora Strabińska. E il nome le rimase. Poi, quando venne ad abitare con me la mia amica Zosia, chiamammo Strabiński l’intera famiglia.

Erano persone buone, oneste, coraggiose, e grandi patrioti. Avevano un solo difetto: non potevano proprio sopportare gli ebrei.

Ma io mi chiamavo Alicja Zacharczyk ed ero la figlia di un ufficiale polacco deportato in campo di prigionia. Mia madre era morta. Occuparsi di me era una sorta di obbligo patriottico. Gli Strabiński lo adempivano in maniera estremamente coscienziosa.

Mi trattavano come fossi figlia loro. Lui mi chiamava affettuosamente Aluetka, avevo la mia stanzetta nel seminterrato, proprio accanto alla grande cucina, mangiavo a tavola insieme a tutti e partecipavo a ogni ricorrenza familiare, come un parente a pieno diritto. Festeggiavamo anche il mio onomastico, che per fortuna figurava nel calendario.

In casa abitavano anche due sorelle di lui, due zitelle. Una di loro, zia Adela, era l’incarnazione della bontà e mi trattava in maniera così affettuosa che a volte mi pungeva il desiderio irrefrenabile di dirle tutto. Fino ad oggi non sono certa che non lo avesse indovinato da sola e che, ben conoscendo gli umori familiari, non si fosse lasciata sfuggire neanche una parola.

I signori Strabinski avevano due figlie. La prima, Jaga,1 aveva la mia età ed eravamo subito diventate amiche. La seconda, Grażyna, era più piccola di noi di circa due anni. Jaga era splendida, aveva i capelli castani ondulati, un grazioso nasino e un sorriso raggiante e contagioso. Grażyna era magra come sua madre, e come lei priva di grazia.

Nella casa degli Strabiński si svolgevano riunioni clandestine. In conseguenza di queste riunioni tutte e tre uscivamo di notte con fiori e bandierine biancorosse, con cui decoravamo le tombe dei soldati nei cimiteri e i luoghi delle esecuzioni sommarie lungo le strade. Pensavo a volte cosa ne avrebbe detto la mia tutrice Inka, che a ogni nostro incontro non smetteva di ripetere: «Stai attenta».

Nel nostro giardino erano sepolte delle armi. Non dovevamo saperlo, ma avevamo trovato una finestrella in cantina dalla quale



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