Vento di terra by Paolo Rumiz

Vento di terra by Paolo Rumiz

autore:Paolo Rumiz [Rumiz, Paolo]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Paolo Rumiz; BEE; Vento di terra; Istria; ex Jugoslavia; Croazia; Slovenia; Tuđman; minoranza italiana; esodo; fascismo; pescatori; profughi; Tito; Balcani; confine; nazionalismo; lingue; Trieste; frontiera; rerrano; refosco; bora; ulivi; Fiume; Rovigno; Pola; Mediterraneo; Adriatico
editore: Bottega Errante Edizioni
pubblicato: 2020-08-18T22:00:00+00:00


Elogio dei bastardi, Malvasia e la sindrome di Vukovar

Davanti alla chiesa di San Francesco, in mezzo alle vecchie mura romane, la piccola Azra, nata a Bihać in Bosnia, sta seduta su un muretto assieme a Ines, anni otto, nata a Pola. C’è un gran silenzio nella città vecchia, la brezza di mare riempie i panni stesi, qualche lucertola si muove al sole sulle mura del convento. Azra e Ines vorrebbero giocare ma non si sono mai viste prima. Aspettano le loro mamme che, assieme a padre Djuro, francescano conventuale, cercano un paio di scarpe usate e un po’ di biancheria nei depositi della Caritas.

Da qualche mese, assieme ai rifugiati di guerra, ci sono anche vecchi polesani a fare la coda per un vecchio vestito o un chilo di farina. Vengono con un tesserino che certifica la loro indigenza: nome, cognome e fotografia. Non sono proletari ma insegnanti in pensione, impiegati, professionisti senza lavoro. È una miseria pudica; a Pola nessuno chiede l’elemosina.

Quella che si nota subito è invece la sfacciata ricchezza di altri. Ai Giardini non si sono mai viste grosse cilindrate così costose; la discoteca Piramida la notte si riempie di jeunesse dorée, teste rapate e ragazze seminude; nelle baie appartate di Stoja e Valsabbion si costruiscono ville; nei ristoranti i prezzi sono quelli di Roma e Milano. Così gli operatori umanitari che arrivano a Pola dall’estero difficilmente possono capire, e si chiedono se in quella città ci sia davvero bisogno di aiuti. Ma l’ostentazione del benessere è solo il segno della voragine che la guerra e le privatizzazioni selvagge hanno scavato anche a Pola tra ricchi e meno abbienti. Ed è soprattutto il segno dell’impoverimento – per non dire della distruzione – della classe media urbana in gran parte della ex Jugoslavia a causa della crisi bosniaca. Così, i migliori se ne vanno. Molti studenti universitari, tecnici del cantiere e infermieri ospedalieri, per esempio, sono già emigrati all’estero. E in città restano a far da padroni la nomenklatura riciclata e gli squali del business facile.

Pola del terzo millennio, Pola dell’arena e dell’impero romano, Pola dell’ammiragliato asburgico, Pola italiana, Pola bastione operaio jugoslavista: la città entra smarrita, alla cieca, nella sua ennesima metamorfosi. Ed esce sfiancata dall’allegra cementificazione socialista, dalle immigrazioni zagabresi e belgradesi, dall’invasione dei ćevapčići contro i mussoli e il Malvasia. «Questa terra non è mai stata vista come realtà culturale, nemmeno a livello di cliché» dice Srdja Orbanić, trentatré anni, brillante studioso di sociolinguistica. «Tutti quelli che arrivavano qui si sentivano in dovere di insegnarci qualcosa». Di solito, chi tardi arriva male alloggia. A Pola invece comandano da un secolo gli ultimi venuti: funzionari viennesi, gerarchi romani del littorio, serbi o montanari croati dello Zagorje.

Oggi, dopo essere stata la colonia di tutti, la città si ritrova a partire ancora una volta da zero. Nuova sovranità, nuova moneta, nuovi timbri, nuova fedeltà da dimostrare, nuova cittadinanza (domovnica), nuove trafile burocratiche anche per avere un loculo in cimitero. Ma, anziché provocare ribellione, la tragicomica ripetizione provoca riflusso nel privato, quasi un immobilismo mimetico.



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