Vita mortale e immortale della bambina di Milano by Domenico Starnone

Vita mortale e immortale della bambina di Milano by Domenico Starnone

autore:Domenico Starnone [Starnone, Domenico]
La lingua: ita
Format: epub
editore: EINAUDI
pubblicato: 2021-09-15T12:00:00+00:00


16.

Comunque anche quegli ultimi due anni mi parevano vita incerta, sempre prossima a regredire, e sentivo il bisogno di un po’ di sostegno per non spaurirmi. Sicché, tutto sommato, anche mia nonna mi andava bene. Quel suo pendere dalle mie labbra e dal mio umore era come l’olio di fegato di merluzzo, di cattivo sapore ma ricostituente. Ogni volta che uscivo di casa, mi faceva tre timide domande. La prima era:

– Addovàie?

Rispondevo infastidito:

– All’università.

La seconda era:

– Tuornammangià?

Rispondevo ancora piú infastidito:

– No, torno stasera, stanotte, nunnossàcce.

La terza – la piú deferente di tutte, quasi un sussurro – era:

– Chevvaiasturià?

Rispondevo lasciandola stordita:

– Papirologia.

Subito dopo infilavo la porta corroborato, scendevo saltellando le scale, costeggiavo l’affollatissima piazza Garibaldi e andavo a passo sicuro per il Rettifilo, fino all’università, fino appunto all’aula di Papirologia.

A seguire quelle lezioni eravamo in pochissimi, ma il professore non ci rivolse mai la parola. Me lo ricordo sempre di schiena, impegnato a comunicare la sua scienza soltanto alla grande lavagna rettangolare che aveva davanti e sopra la quale, mentre le parlava, scriveva bianco su nero informazioni sui papiri di Ercolano.

Si trattava sicuramente di lezioni molto competenti, ma io ero quel che ero e mi distraevo spesso. Una mattina successe che lui stava ragionando sulla difficoltà di srotolare quei reperti e io passai a pensare ai pericoli del Vesuvio, alle eruzioni in generale, a vocaboli come putizze, mofete e flussi piroclastici, al color pastello del familiarissimo vulcano ombreggiato di pampini che di colpo, nel bel mezzo di qualche danza di satiri gonfi di vino locale, si metteva a sfiatare l’inferno e la morte, tanto che soffocavano e bruciavano e si dissolvevano intere città con le loro pretenziose politiche, creature viventi le piú varie, ultime frasi mormorate o gridate, mentre per caso, assolutamente per caso, solo le parole scritte sui papiri carbonizzati e corazzati da roccia lavica – solo le parole senza suono di un epicureo defunto da tempo, l’ottimo Filodemo di Gadara coi suoi segni mortuari vergati su altra morte, quella delle verdi piante palustri rizomatose con cui si faceva carta egizia –, solo quelle duravano, pur bruciando, pur carbonizzandosi, e per secoli restavano in attesa paziente di essere lette, di ridiventare addirittura voce, oggi, domani, sempre.

Fu in uno di quei momenti di svagatezza che la milanese tornò alla carica e provò a scavarsi un posticino piú stabile nella mia vita. Non so come successe. Forse fu l’immagine del Vesuvio sterminatore; forse fu l’idea che sul nostro pianeta ci sono continuamente decessi di singoli e stermini di massa cosí intollerabili che perfino gli dèi poi si rammaricano di esserseli permessi; forse fu semplicemente che avevo la testa piena di formule letterarie e cercavo occasioni buone per usarle. Fatto sta che la bambina di Milano irruppe questa volta con una forza che non aveva avuto quando l’aveva evocata il nome di Lello. E poiché a fine lezione mi aspettava in corridoio la mia fidanzata, non mi trattenni, le raccontai quella storia di sventura e dolore.

Le dissi tutto, meravigliandomi io stesso di quante cose ricordavo: i balletti sul davanzale, le piogge, i petali bianchi, i duelli, i deliri.



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