Wlodek Goldkorn by L'asino del Messia

Wlodek Goldkorn by L'asino del Messia

autore:L'asino del Messia [Messia, L'asino del]
La lingua: eng
Format: epub
pubblicato: 2019-10-03T22:00:00+00:00


10.

Witek aveva i capelli ricci, biondi. Non so da dove fosse arrivato né chi fosse la sua famiglia. Non mi ricordo neanche dove abitava. Lo vedevo al gan. “Gan” in ebraico vuole dire giardino: Gan Eden vuol dire Giardino dell’Eden. Il nostro gan non era Gan Eden, ma il giardino pubblico di Ramat HaNassi: uno spiazzo incastrato tra palazzi costruiti in fretta, una sabbiera, un’altalena, lo scivolo, qualche pianta, arbusti, rovi e poi panchine in cemento armato. Noi, i ragazzi e le ragazze polacchi, arrivati a Ramat HaNassi, le nostre serate le trascorrevamo perlopiù nel gan; io non sempre perché spesso ero con i miei compagni israeliani impegnati come me nella militanza politica.

Avevamo scoperto l’hashish a Ramat HaNassi. Veniva dal Libano; lo vendevano a Giaffa, a Rekhov shishim, in via Sessanta. La tavoletta, marrone-verde aveva la forma di un dito e infatti la chiamavamo etsba, dito. “Si andava a Rekhov shishim per comprare etsba,” così dicevamo: parlavamo un misto di polacco ed ebraico, uno slang da adolescenti e da criminali. Poi con Witek era arrivato l’oppio.

Witek era apparso all’improvviso nella nostra comunità. Eravamo una ventina, poco più che adolescenti e non ancora adulti. Avevamo chi sedici chi diciassette anni, i nostri primi amori erano rimasti in Polonia, sapevamo che non li avremmo mai più rivisti. Eravamo figli e figlie di medici, giornalisti, scrittori, ingegneri. Nel giro di pochi mesi, dalla partenza in treno per Vienna, all’arrivo qui a Ramat HaNassi, quartiere di Bat Yam, eravamo diventati figli e figlie di nessuno.

I nostri genitori non avevano tempo per occuparsi di noi. Così padri e madri diventarono nostri coetanei, anche se avevano superato i cinquant’anni. Il nuovo mondo, Israele, era per loro un universo sconosciuto; dovevano impararne le regole e la lingua, come i bambini e gli adolescenti. Ma loro, essendo ormai piuttosto anziani, non avevano tempo.

Di sera spesso parlavamo dei nostri genitori, non per lamentarci, come (penso) fanno gli adolescenti, di come erano o sembrassero vecchi, o di come ci trattassero da bambini. Noi parlavamo dei nostri genitori perché volevamo capire come aiutarli. Ci sentivamo responsabili per la sorte dei nostri padri e delle nostre madri.

E un giorno Witek portò l’oppio.

Non era il solo.

Con il mio amico Konrad ci siamo conosciuti al quartiere di Katamon a Gerusalemme, ambedue profughi della Polonia. Con lui parlo al telefono. Lo facciamo spesso, lui abita in Germania. Per l’ennesima volta ci confessiamo quanto l’unico luogo al mondo dove ci sentiamo a casa sia Varsavia, ma anche che lì non vorremmo mai viverci; e di nuovo che a Varsavia ci sentiamo a casa, perché in Polonia sappiamo dare il nome esatto a ogni profumo e riconoscere ogni sfumatura di ciascuna parola, anche se molte non le ricordiamo più, ecco mentre ci diciamo tutto questo, gli faccio una domanda su Witek, ma lui tira fuori Janek.

“Janek?” gli chiedo. “No, non me lo ricordo,” gli dico.

Konrad se ne stupisce. “Ma davvero non te lo ricordi?”

“Ora che me lo dici, sì. Aveva i capelli biondi lisci.”

“Suo padre era un alto ufficiale delle forze armate in Polonia.



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