Zaccuri Alessandro - 2014 - Il signor figlio by Zaccuri Alessandro

Zaccuri Alessandro - 2014 - Il signor figlio by Zaccuri Alessandro

autore:Zaccuri Alessandro [Zaccuri Alessandro]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Fiction, General, Literature & Fiction, Foreign Languages, Italian, Contemporary Fiction, Foreign Language Fiction
ISBN: 9788899015121
Google: D36ACgAAQBAJ
Amazon: B00PH4IL14
editore: Libreria degli scrittori
pubblicato: 2014-11-10T23:00:00+00:00


III

La tua testa di morto, sono io che l’ho scolpita

CÉCILE SAUVAGE

«Mi avete riconosciuto» dice Jack.

Nella stanza domina la stessa sensazione che si prova quando un saltimbanco interrompe

in modo drammatico il proprio gesto, mostrando un muscolo esasperato dalla fatica di sollevare un peso ciclopico, oppure rimanendo sospeso sul filo, in un equilibrio che parrebbe impossibile conseguire e che invece, a dispetto di ogni verosimiglianza, si protrae per un tempo indefinito, astratto. John capisce che toccherebbe a lui dire qualcosa, ma non sa che cosa aggiungere alla perfezione del riconoscimento preordinato e atteso. Dei due libri, identici in tutto se non nell’usura, uno è rimasto sul tavolo, a fianco del serramanico in madreperla, l’altro è ancora tra le mani di Giovane Chi, che sarebbe tentato di nasconderlo nuovamente in tasca, come a fingere che nulla è accaduto e che adesso, finalmente, possiamo tornare di là a studiare l’indostano, il brammanico, il grandonio e il malabarico.

«Ancora non mi capacito di come l’edizione fiorentina sia ancora così diffusa» commenta

garrulo il conte, serrando gli artigli sul volumetto che causa l’impaccio del discepolo. «Il testo canonico dovrebbe essere quello della Napoletana, no? Con La ginestra e tutto il resto. Me ne rammarico più che altro per l’amico Ranieri, che ha tanto faticato a improvvisarsi filologo. Io in questi anni, come vedete, ho avuto altro a cui pensare.»

Un’eleganza ostentata e dolorosa attraversa il gesto con cui l’italiano allude al macchinario che si snoda lungo le pareti della stanza. John si sorprende ad ammettere che, in fondo, è del tutto naturale che il conte abbia trascorso gli ultimi decenni nella compilazione assidua di foglietti destinati al telaio. Inseguire parole e appenderle lungo le pareti può essere, a Londra, un’occupazione abbastanza onorevole.

«Dodici pannelli di venti file ciascuno» riprende intanto a spiegare il conte. «Confesso, mio giovane amico, di essere molto soddisfatto del mio disegno originario. Tanto soddisfatto quanto ossessionato dall’unico errore che ho commesso nell’attuarlo. Avete mai tentato di rimettere ordine negli appunti presi su un quaderno? È una cabala, un labirinto di indici, sigle e rimandi da perderci il senno, ve lo posso assicurare. Ci ho provato, a suo tempo, il cielo sa se ci ho provato. Ma il guaio è che, una volta scritto sulla pagina, da lì il pensiero non si stacca più, mi comprendete? Questo lo dice già Platone nel Fedro, nulla di nuovo. La novità»

annuncia puntando di nuovo l’artiglio contro le pareti «è questa. I miei pannelli, i miei palinsesti, un intero zibaldone messo al muro.»

Fissa John negli occhi: azzurro contro azzurro, ghiaccio contro acciaio.

«Messo al muro, come si merita» aggiunge, e subito scoppia a ridere. Male, come ride lui, con quelle schegge di vetro che gli si frantumano in gola. Questa volta l’ilarità si consuma subito, lasciando subentrare una tristezza prossima allo sfinimento. Il conte appare spossato, barcolla fino a raggiungere il letto, si siede sull’orlo di quelle lenzuola sporche e macerate dall’insonnia. Scuote la testa mentre dice: «Ormai sono vecchio, amico mio. Per questo dovete aiutarmi a compiere l’Opera».

Le hanno appena cambiato le lenzuola, un’altra volta. Sono gli ultimi giorni d’agosto, a Parigi fa ancora caldo. E lei ha la febbre, febbre alta. Suda, e i farmaci contaminano il suo sudore con il loro lezzo acidulo, che subito impregna i tessuti, ristagna a lungo nella stanza.

Le hanno cambiato le lenzuola, di nuovo. Le hanno fatto indossare una camicia da notte

pulita, e biancheria di bucato. Sul collo le hanno vaporizzato acqua di Colonia, in modo che quella frescura si propagasse anche al seno, sempre più scavato e spento.

Tu prendi il latte puro dell’anima mia serena,

mio piccolo poppante che non ha veduto il giorno…

piccola anima in bocciolo, al mio fiore avvinghiata.

Da dove vengono queste parole? A chi sono appartenute, si domanda. Ora è nato. Io sono sola, ricorda di aver scritto. Se pure non l’avesse fatto, avrebbe dovuto: il figlio è nato, la madre è sola. Non esiste verità più semplice, più abbagliante di questa della carne che dalla carne dolcemente si strappa.

Crede di averlo già scritto, pensa che avrebbe dovuto scriverlo.

Anche adesso non c’è nessun altro nella stanza, a lei spetta vegliare finché la febbre tornerà a salire. Non c’è da fidarsi di queste tregue mattutine, ormai lo sa bene, anche se il medico cerca di rassicurare lei e confortare il marito, i figli.

«Madame Messiaen ha una tempra robusta» ripete indulgente. «Bisogna aver fiducia nei

progressi della scienza» aggiunge. Un brav’uomo esperto in termometri e pasticche, una voce senza suono, parole senza voce.

La scienza, i suoi progressi, l’acciaio ben temperato delle officine Krupp, i gas dosati ad arte dagli inglesi per stanare gli unni dalle trincee. Il chinino, la morfina, madame Curie e il bagliore spettrale del radio.

La scienza e i suoi progressi.

Cibele, la Madre, sola in questa stanza.

Sono gli ultimi giorni d’agosto, il sole insidia Parigi come un eroe giovane e selvaggio.

Entra sicuro dalla finestra che il medico ha ordinato di aprire il meno possibile: meglio piuttosto tenere accostate le imposte, più opportuno rinfrescare con l’oscurità che mediante l’aria. In questa fase della malattia un refolo potrebbe provocare una catastrofe.

È ancora presto, le otto passate da poco. Manca tempo prima che le imposte costringano

la stanza in un buio innaturale. Il sole entra basso e impetuoso, i raggi sono sabbia sollevata da un cavallo al galoppo. Sul vetro sono rimaste impurità inattese, le tracce come di fanghiglia lasciate dall’ultimo acquazzone, la pista opaca dello straccio passato in fretta, per non disturbare il sonno di febbre della signora. Così la chiama Toinette, la domestica: la signora ha la febbre, la signora non deve affaticarsi, la signora farebbe meglio a prendere un po’ del suo tè.

Cécile si compiace di quell’appellativo che la riporta indietro nel tempo, quando nel suo

corpo minuto si formava il germoglio carnale dei figli, quando la gravidanza le attribuiva una regalità ancestrale e perfetta, presentandole ogni cosa più prossima, reale. Adesso invece tutto si allontana, svanisce nella vampa del sole che incede nella stanza. Tra poco la febbre tornerà a colpirla come uno schiaffo, come l’assalto di un amante frettoloso e inesorabile, come Zeus che scende in pioggia d’oro sul grembo indifeso di Danae.

Anche la madre – la signora – attende di essere fecondata dall’insulto luminoso della febbre. Socchiude gli occhi, sorride al primo bagliore che si fa strada dal lato d’ombra delle palpebre.

È il 25 agosto, l’anno è il 1927. Inizia il delirio, si compie la visione.

Il conte tiene ancora in mano il libro che, fino a poco fa, John portava in tasca. Lo ha appoggiato accanto a sé, sul letto macilento. Giovane Chi già teme il momento in cui l’italiano pretenderà di restituirglielo e a lui toccherà accettare quel pegno contaminato, infetto. “Mi comporto già come un sahib” si ritrova a pensare, “è come se fossi alle prese con un lebbroso per le strade di Bombay.” Senza rendersene conto, inizia a sfogliare l’altra copia dei Canti, che giace impolverata sullo sconnesso tavolo da lavoro. Da principio sospetta un qualche errore di stampa oppure che il volume sia una prova di legatura, pagine bianche tenute insieme da filo e colla, inchiavardate da cartone e tela nello stesso formato da destinarsi poi al libro stampato. Qualche parola si ostina a emergere dalla distesa ossessiva del bianco, alberi o rovine che affiorano da una radura devastata dalla valanga.

«Ho esercitato anche l’arte dell’imbianchino, come potete vedere» commenta lontano il

conte. «Un imbianchino dotto, però, chimico e vendicativo. C’è sempre molta erudizione nelle mie imprese, così come nelle mie malefatte. Forse troppa erudizione e troppo poche malefatte, ne convenite anche voi?»

«Signore, non sono sicuro di comprendere la situazione in cui ci troviamo. Vi pregherei

di dispensarmi dal procedere oltre nella conversazione.»

L’italiano scatta in piedi, adesso è uno gnomo che combatte per difendere la sua pentola

d’oro, un coboldo che tende agguati nei boschi sconfinati del Nord, è Puck che scende in armi perché non siano violati i segreti delle colline.

«Ma sicuro, come no! Una bella dispensa papale, benedicite Domine e tutto il latino che non siete mai riuscito a farvi entrare in testa! Così poi ve ne prendete la porta tranquillo e andate a consolarvi tra le braccia della vostra sposa promessa. O per caso siete già arrivato a trovare una buona sistemazione tra le cosce della signorina Macdonald?»

«Non vi permetto, nel modo più assoluto» ribatte John. Dal tavolo la madreperla del coltello manda un riflesso ambiguo, invitante. Il frutto



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