Non dire falsa testimonianza by Tullio Padovani & Vincenzo Vitiello
autore:Tullio, Padovani & Vincenzo, Vitiello [Tullio, Padovani & Vincenzo, Vitiello]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Filosofia, Voci
ISBN: 9788815313386
editore: Societa editrice il Mulino Spa
pubblicato: 2013-10-14T22:00:00+00:00
Le radici del comandamento
Per rispondere alla domanda, il legista, improvvisandosi storico, si volge alla ricerca del contesto originario nel quale il precetto è stato espresso. «Lo storico â scrive tuttavia un grande interprete del Decalogo â sovente presta più attenzione alle distanze, in modo che il passato resti passato e il presente presente», mentre invece «comprendere significa, per il lettore, essere partecipe di ciò che dice il testo. In realtà non è il testo a essere compreso, ma il lettore che si comprende»[12]. Si tratta di una prospettiva ermeneutica «esistenziale», che non è, ovviamente, praticabile e praticata da un legista. Questi si sforza invece di comprendere il testo prima di tutto restituendolo alla sua dimensione originaria, a ciò che allâorigine esso significava; per assecondarne poi un cammino che lo traduca altrove, accompagnandolo nel tempo senza reciderne le radici.
Il monolitico concentrarsi dellâottavo comandamento sulla figura del testimone trova il suo senso primigenio nel sistema processuale dellâantico Israele. Come ricorda Gianfranco Ravasi, «ogni villaggio aveva come sede giudiziaria la porta pubblica, che svolgeva le funzioni di municipio. Membri di diritto della corte di per sé erano tutti i cittadini residenti non soggetti a tutela [â¦] e dotati di diritti civili [â¦]. I giudici e lâassemblea stavano seduti: chi testimoniava stava in piedi e, per la particolare tipologia di questa corte popolare, si poteva essere contemporaneamente testimoni e giudici». In un simile contesto, che per qualche tratto ricorda le origini remote dellâistituto della giuria, è chiaro che la figura del testimone sovrastava e, in certi casi, assorbiva il ruolo del giudice. La testimonianza era essenziale ed esclusiva, perché la decisione seguiva in conformità al suo contenuto, sotto il controllo dellâintera comunità . La veridicità del testimone costituiva dunque il punto cruciale del giudizio.
Quando il ruolo del giudice si rese autonomo, si svilupparono, da un lato, «regole severissime per determinare se i giudici, particolarmente quelli dei tribunali superiori, possedessero le qualità necessarie allâesercizio del loro alto ufficio», e cioè «perfezione fisica, morale e intellettuale»; dallâaltro, una disciplina rigorosa della testimonianza, stabilendo una lunga serie di incompatibilità basate sullâindegnità sociale, morale o giuridica, o relative ai rapporti di parentela, di amicizia intima o di inimicizia protratta. Vincoli altrettanto stringenti presidiavano poi il numero minimo dei testimoni â almeno due â necessari per fornire la prova, mentre lâoggetto della testimonianza era circoscritto a ciò che il testimone aveva direttamente visto del fatto contestato, escludendo ogni circostanza indiretta. In sostanza, «poteva testimoniare solo chi aveva visto commettere il delitto». Nellâinterrogare il testimone era richiesta una particolare prudenza: «sii molto circospetto nellâesame dei testimoni e staâ attento alle tue parole, per téma che attraverso esse imparino a mentire»[13]. Il falso testimone era trattato con grande severità : subiva la stessa pena che sarebbe stata, o che era stata, applicata alla persona contro cui la dichiarazione era stata resa, inclusa la morte.
Un tale complesso di regole esprime innanzitutto la diffidenza (del resto storicamente persistente) verso una prova periclitante, non solo perché la veridicità , e cioè la corrispondenza tra il dichiarato e
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