10 lezioni sulla giustizia by Caringella Francesco
autore:Caringella, Francesco [Caringella, Francesco]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Giustizia
ISBN: 9788852082740
editore: Mondadori
pubblicato: 2017-10-01T22:00:00+00:00
Lezione settima
Giustizia, vendetta e punizione
Gli uomini impareranno a commettere meno ingiustizie quando anche chi non le ha patite parteciperà al dolore e allo sdegno di chi le ha patite.
SOLONE
Per quale ragione, nel 399 a.C., la «democratica» Atene condannò Socrate?
I capi d’imputazione per cui il grande filosofo fu processato nell’Areopago, il tribunale supremo dell’epoca, erano tre: empietà, corruzione dei giovani, introduzione di nuove divinità al posto di quelle tradizionali.
Socrate si difese da solo, contestando la legittimità del procedimento penale nei suoi confronti, ma alla fine la giuria, composta da 501 cittadini ateniesi, lo giudicò colpevole, sia pure con una maggioranza di soli 30 voti. A quel punto, secondo le leggi dell’agorà, sia l’imputato (Socrate) sia l’accusatore (Meleto) dovevano stabilire la qualità e la quantità della pena.
In chiaro gesto di sfida, Socrate chiese ai giudici di essere mantenuto nel pritaneo a spese della città, come d’uso per i benefattori, per aver insegnato ai giovani ateniesi la scienza del bene e del male. In alternativa, si disse disposto a pagare un risarcimento di trenta mine, una somma irrisoria. Meleto chiese, invece, la pena capitale.
Come sempre accadeva nella «democratica» Atene, le due proposte vennero messe ai voti, e la giuria, più per l’irricevibilità delle proposte di Socrate che per intima convinzione, accolse la richiesta di Meleto e, questa volta con uno scarto ben superiore (360 voti a favore contro 140 contrari), lo condannò a morte mediante l’assunzione di cicuta.
All’epoca molti condannati a morte, pur di evitare la tragica fine, sceglievano volontariamente la via dell’esilio con il tacito consenso delle autorità, e molti pensavano che anche Socrate avrebbe fatto altrettanto. Anche perché, una volta accertata la sua colpa di fronte al popolo, per la giustizia ateniese l’esecuzione della sentenza era un aspetto trascurabile.
Ma Socrate stupì tutti. Il tribunale aveva condannato la sua filosofia, che lui non avrebbe mai potuto abbandonare («una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta»). «Perciò,» sostenne il filosofo «mi ritroverò a rivivere la stessa situazione che mi ha portato alla condanna: qualcuno dei parenti dei miei giovani discepoli si irriterà della mia ricerca della verità e mi accuserà.» Preferì quindi la morte, «che nessuno sa che cosa sia o se non sia per l’uomo il maggiore di tutti i beni», all’esilio, che si sa con certezza essere un male, una vergogna intollerabile, una privazione della dignità dell’uomo come membro di una comunità.
Ma c’è un’altra ragione per cui scelse questa via. Come racconta Platone nel Critone, Socrate non si sottrasse alla condanna perché, secondo lui, «è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla» e il rispetto della legge e della sentenza è più importante della salvezza personale e dell’ingiustizia delle accuse. Nella sua visione del mondo, la sentenza dell’Areopago incarnava la volontà istituzionale della democrazia ateniese, e quindi la pena comminata, ancorché capitale e iniqua, doveva essere eseguita.1
Qualche anno fa, pochi mesi dopo essermi trasferito a Roma per ragioni di lavoro, accompagnai mio figlio Antonio al parco. Nei pressi dell’altalena, notai un uomo più o meno della mia età che giocava con suo figlio.
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