Introduzione alla Divina Commedia by Carlo Ossola

Introduzione alla Divina Commedia by Carlo Ossola

autore:Carlo Ossola [Ossola, Carlo]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Marsilio
pubblicato: 2021-03-24T20:50:03+00:00


* * *

1 «Ter conatus ibi collo dare bracchia circum, / ter frustra comprensa manus effugit imago, / par levibus ventis volucrique simillima somno» (Aen., VI, 700-702).

17.

La vanità e la gloria

Insieme a «tante umilitadi», serpeggia di continuo nel Purgatorio l’anelito della gloria e, parimenti, la coscienza della vanitas umana. Il canto XI è anche meditazione accorata sulle arti e sulla fama; sulla brevità della rinomanza, sulla inanità della vicenda terrena. Il pellegrino si china a terra (le anime superbe infatti «andavan sotto ’l pondo», v. 26, e il peso le opprime: «si torse sotto il peso che li ’mpaccia», v. 75) per scorgere ed essere riconosciuto: «e videmi e conobbemi e chiamava, / tenendo li occhi con fatica fisi / a me che tutto chin con loro andava» (XI, 76-78). Quel «videmi e conobbemi» è così pieno di ritegno e di dolorosa coscienza che Torquato Tasso e poi Monteverdi lo ripeteranno in uno degli episodi più pateticamente accorati di tutta la letteratura italiana, al culmine del combattimento notturno di Tancredi e Clorinda: «La vide, la conobbe: e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!» (T. Tasso, Gerusalemme Liberata, XII, 67). Qui è Oderisi da Gubbio che all’elogio del primato che Dante gli conferisce con studiato francesismo: «l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi» (vv. 80-81), risponde con un altrettanto calcolato frequentativo1: «“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte /che pennelleggia Franco Bolognese» (vv. 82-83); allo stesso modo «Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido» (vv. 94-95); e come è dell’arte della miniatura e della pittura, così accade per la poesia (con autoelogio finale di Dante): «Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido» (vv. 97-99). Siffatta e acuta lettura delle arti, del canone e dei primati, del proprio tempo è tuttavia sottoposta al controcanto della vanitas che trova qui biblici accenti: «Oh vana gloria de l’umane posse!» (esclamazione assai prossima al «vanitas vanitatum et omnia vanitas» di Eccl. I, 2 e XII, 8) e coscienza d’inanità: «Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato» (vv. 100-102)2. Ma non è solo risposta “locale” al fiato e al «tumor» (v. 119) di superbia: molto più capillarmente tale vanitas tocca l’intero poema, nell’impallidire e vanire di ogni visione, sentenza e parola umana:

cotal son io, ché quasi tutta cessa

mia visïone, e ancor mi distilla

nel core il dolce che nacque da essa.



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