Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte by Jean Améry

Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte by Jean Améry

autore:Jean Améry [Améry, Jean]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: History, Modern, 20th Century, Holocaust, Philosophy, Ethics & Moral Philosophy
ISBN: 9788833922836
Google: Ez3rugAACAAJ
editore: Bollati Boringhieri
pubblicato: 2012-01-14T23:00:00+00:00


3.

MORIRE DI PROPRIA MANO.

Ancora una volta un’espressione che il linguaggio ha tratto dalla realtà, che ha usato e infine lasciato cadere, tanto che oggi ha un carattere quasi arcaico: «morire di propria mano».

Un’espressione tuttavia che a me è sempre parsa così penetrante e dotata di una sua autorevolezza da scegliere di usarla anche adesso, per quanto superata essa suoni. Morire di propria mano. Mi viene in mente a questo proposito una atroce forma di suicidio riferita da Gabriel Deshaies nel suo testo del 1947, “La psicologia del suicidio”.

Un fabbro mette la testa fra le ganasce di una morsa e con la mano destra stringe l’attrezzo sino a fratturarsi il cranio. Ciascuno di noi ha potuto apprendere di altre cause di morte - “Todesarten” [Cause di morte], non avrebbe dovuto essere questo il titolo dell’ultimo libro di Ingeborg Bachmann? - altrettanto crudeli. C’è chi si taglia la gola con un rasoio. Il poeta e soldato giapponese Mishima si pianta la spada nel ventre, come vuole il rituale. Un detenuto ricava una corda dalla sua camicia, se la avvolge intorno al collo e si impicca alle sbarre della cella. Cause di morte violente: si leva la mano contro qualcosa. Contro che cosa? Contro un corpo, che per il suicida è parte dell’io. Parliamo subito di questi due, dell’io e del corpo. Sono uno e bino. Oggetto dell’aspirante suicida e del suicida, e allo stesso tempo soggetto, inviolabile e in quanto tale invalicabile, anche se vulnerabile e distruttibile. Non v è dubbio che colui che cerca la morte libera deve avere con entrambi, che sono unità e dualità, un particolare rapporto: la psicologia forse lo definirebbe «narcisistico». (Il che non escluderebbe l’autoaggressione; sulle ipotesi psicologiche torneremo tuttavia in seguito, a tempo debito). Per il momento ci troviamo di fronte al dato di fatto nudo e crudo che un io e un corpo vengono distrutti: da quello stesso io, dal medesimo corpo. Che dire di quest’ultimo? Ho affermato che in rapporto all’io è presenza corporea, che le parti del mio corpo, il cuore, lo stomaco, i reni e cosi via, sono «mondo esterno». Tale riflessione andrebbe integrata, perché in realtà, in questo caso, l’esterno e l’interno, o meglio il dentro, sono conformati in modo da compenetrarsi spesso, per poi allontanarsi di nuovo, e altre volte da risultare così estranei come se non si fossero mai visti prima. Il rapporto tra il corpo e l’io è forse l’insieme più misterioso della nostra esistenza vissuta, o se si preferisce della nostra soggettività o del nostro essere-per-sé. Nella quotidianità non ci avvediamo del nostro corpo. Nel nostro essere-nel-mondo il corpo è, come diceva Sartre, «le négligé», «le passé sous silence»: è trascurato, di lui quasi non si parla, a lui non si pensa. Il corpo è racchiuso in un io che a sua volta è fuori, altrove, nello spazio del mondo dove ci si «annulla» (“se néantise”) per realizzare il proprio progetto. Noi non “abbiamo” il nostro corpo, “siamo” il nostro corpo. È, come dicevo, l’altro, il mondo esterno, sicuramente.



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