Messaggio per mio figlio by Alejandro Zambra

Messaggio per mio figlio by Alejandro Zambra

autore:Alejandro Zambra [Zambra, Alejandro]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Sellerio Editore
pubblicato: 2024-01-09T23:00:00+00:00


10 Spezzatino di carne con verdure, mais e fagioli a cui spesso viene aggiunto un uovo a occhio di bue.

11 Si tratta di una versione locale del Monopoli, in cui le proprietà da vendere e comprare sono vie e attività emblematiche di Santiago del Cile.

12 «Poto» è il termine familiare cileno che equivale alla parola «culo».

Grattacieli

Non sono andato a New York perché non ho voluto tagliarmi i capelli. E mio padre non ha letto la mia Lettera al padre.

«La leggerò quando avrò voglia di piangere», mi disse. «Solo che io non ho mai voglia di piangere».

Non seppi cosa rispondere. Non sapevo mai cosa rispondere. Per questo scrivevo, per questo scrivo. Quello che scrivo sono le risposte che non mi sono venute in mente al momento giusto. Gli abbozzi di quelle risposte, in realtà.

La prima volta che ho provato a scrivere questa storia, per esempio, ho cercato di tenerti fuori. Credevo fosse possibile mascherare la tua assenza, come se tu non fossi arrivata in teatro e gli altri attori della compagnia, me compreso, avessero dovuto improvvisare un cambiamento di copione.

Solo adesso capisco che la storia era cominciata con te, perché, anche se volessi in qualche modo negarlo, questa è, in tutti i sensi, una storia d’amore.

*

Da appena una settimana filava tutto liscio – sarebbe inappropriato dire che andava tutto bene, perché le cose non andavano mai veramente bene, ma a volte la via di mezzo funzionava e c’erano perfino giorni felici. Io e mio padre, in macchina, con i finestrini abbassati, ad ascoltare il notiziario: potevamo anche sembrare due amici, o due fratelli, diretti al lavoro, contenti di essere insieme per alleggerire il viaggio parlando del più e del meno.

«Dovresti imparare a guidare», mi disse lui quella mattina, mentre eravamo fermi a un semaforo.

Era da quando avevo quattordici anni che sentivo la stessa frase, forse da prima, da quando ne avevo dodici. Adesso, a vent’anni, pensavo che in effetti imparare a guidare poteva avere un senso, anche solo per accarezzare la stupida fantasia di una fuga veloce sulla strada, dopo aver rubato ai miei genitori tutto quello che avevano, a cominciare dalla macchina.

«Potrei imparare, sì».

«Vuoi che ti insegni?», mi disse, entusiasta. «Domani, che è domenica?».

«Domani, ottimo».

L’ufficio di mio padre era in centro, ma allungò la strada di qualche centinaio di metri per lasciarmi vicino al Consolato degli Stati Uniti d’America, dove avevo un appuntamento per chiedere il visto. Mi ero rassegnato all’idea che ci avrei messo un’eternità, e invece un’ora dopo ero libero e riuscii perfino ad arrivare alla lezione di Schuster con qualche minuto di ritardo, il che comunque non era un problema perché lui odiava le formalità, entravamo e uscivamo dall’aula senza bisogno di un pretesto, come se la lezione si svolgesse sulla pubblica via e noi non fossimo nient’altro che gli spettatori momentanei di un predicatore o di un venditore ambulante.

Mi rifugiai, come sempre, all’ultima fila, tirai fuori il gigantesco quaderno dove annotavo qualche frase isolata, non provavo nemmeno a prendere appunti,



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