Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli by Cesare Garboli

Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli by Cesare Garboli

autore:Cesare Garboli [Garboli, Cesare]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Quodlibet
pubblicato: 2020-06-25T13:45:21+00:00


da

Poesie famigliari e d’altro genere

(1882-1895)

Premessa

Nel maggio 1912, nel volume zanichelliano di Poesie varie da lei curato subito dopo la morte del fratello, Maria Pascoli raccolse un «gruppo di poesie famigliari, più o meno remote» (1882-1895) e lo arricchì di nuove aggiunte nella seconda edizione del 1914 (ma finita di stampare il 30 agosto 1913, il che spiega le recensioni pilota del «Corriere della Sera» e del «Resto del Carlino» nel settembre del ’13). Non è improbabile che il Pascoli si fosse dimenticato, negli anni di Bologna, afflitto da una malattia che lo invecchiò di colpo e lo rese irriconoscibile e sempre assonnato come avviene ai cirrotici, di quei “biglietti in versi” pieni di felicità ritrovata che giravano per casa nei primi anni del “nido”, gli anni di Massa, quando lui non era più un ragazzo ma non era ancora un uomo (ventinove anni!) Allora le sorelle avevano, Maria vent’anni, e Ida ventidue. La vita a vent’anni, la vita che comincia: Maria custodì questi versi come le reliquie di un amore. Scrisse nella prefazione che li offriva «col fine solo di fare apprezzare la gentilezza e la bontà del gran cuore che le dettò»; ma la ragione era un’altra: quei versi erano un vanto, e dicevano come era nata la poesia pascoliana; dicevano che era nata non nel dolore, ma nella gioia, nell’emozione dell’amore e della gioia. Maria ne assaporava il significato, e intanto fingeva di dare al pubblico cose senza valore, private, dimenticate, di famiglia; e la considerazione critica delle “Famigliari”, se si eccettui qualche interesse suscitato dalle sinestesie dell’Amorosa giornata, che è un pezzo lavoratissimo, o dalla pseudo-alcaica Ida («Al suo passare le scarabattole…»), non è mai andata al di là della pallida curiosità biografica. Ma è un errore. Una giusta prospettiva dei fatti pascoliani impone una rilettura di questa suite di luce feriale e domestica, dove il proposito involontario di una poesia che nasce su fondo tardoimpressionista, poesia fatta di ore che passano oziose o affaccendate nell’arco del giorno e di pensieri cullati nelle mattine di sole coi lenzuoli sul davanzale o nei pomeriggi di studio con la penna fra le labbra e l’anima piena di sogni, l’occhio perso nelle lontane screziature di aranci e oleandri o nelle vicine magnolie del giardino aperto al vento e al mare, si lascia alle spalle gli stucchevoli esercizi gotici di Severino Ferrari e annuncia il tocco semplice e perfino la futura maniera, la civetteria e il lezio di Saba: «Era una gatta, assai trita, e non era | d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino». Chissà che cosa il Pascoli “bolognese”, il Pascoli al quadrato delle Canzoni di re Enzio, 0 quello tutto sapienza mascherata del Ponte sull’Àposa, avrà pensato di questa luce naturale intravista negli anni di Massa e rimasta là. Ma a Massa, dopo il matrimonio dell’Ida (colpevole di aver tradito l’estrosa e diversa gioia del nido con l’intoccabile ricatto naturale che vuole che le ragazze si sposino) il Pascoli doveva ripensare in agrodolce; la felicità di



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