Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura.doc by Giuseppe Barbera

Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura.doc by Giuseppe Barbera

autore:Giuseppe Barbera [Barbera, Giuseppe]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Nature, General, Plants, fiori e piante selvatiche, Alberi, Natura e animali domestici
ISBN: 9788804564416
Google: G9xAGQAACAAJ
editore: Mondadori
pubblicato: 2007-01-14T23:00:00+00:00


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19. G. de Maupassant, La via errante, a cura di P. Thomas, Edizione e Ristampe Siciliane, Palermo 1977, p. 69.

20. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 27, 36.

21. E. Jünger, Viaggio in Sicilia, Sellerio, Palermo 1993, p. 31.

MANDORLO

Nella bellezza inaspettata e improvvisa della fioritura potrebbe trovarsi la ragione prima per la quale il mandorlo è stato coltivato.

I rilievi della paleobotanica e le regole della genetica non riescono a trovare altra valida motivazione che giustifichi la presenza, in antichi insediamenti temporanei di uomini ancora cacciatori e raccoglitori, di semi carbonizzati di mandorli selvatici. Si trattava, infatti, con molta probabilità, di semi terribilmente amari, mortali solo a mangiarne una dozzina, nati da alcune delle numerose specie che crescevano e crescono ancora nelle zone montagnose dell’Asia centrale e occidentale e che hanno originato, per ibridazione, il mandorlo domestico (Amygdalus communis o Prunus dulcis) poi in coltura nel Vicino Oriente e nelle regioni mediterranee. La sostanza venefica è l’amigdalina, un glucoside che libera cianuro utile a respingere l’ingordigia degli uccelli o dei roditori che non risparmierebbero i semi se fossero dolci, pregiudicando così il perpetuarsi degli alberi, l’uomo invece per propagarli potrebbe aver trovate ottime ragioni nei fiori bianchi o appena rosati che sbocciano nel pieno dell’inverno, i primi ad annunciare la primavera che verrà, a celebrare il mistero della vita che ritorna dopo il gelo e la morte.

Cinquemila anni fa, durante l’Età del bronzo, qualcuno (un bambino curioso e affamato, immagina Jared Diamond) si mise in bocca un seme che, sorprendentemente, non risultò amaro. Era incappato in una mutazione spontanea che si dimostrò non solo deliziosa ma anche facile da mantenere: il singolo gene che trasmette il carattere «dolce» si comporta, infatti, da dominante e assicura così che il 75 per cento degli alberi che nascono dai semi di un mandorlo dolce mantenga questa caratteristica nella discendenza. Grazie alle leggi che regolano l’eredità dei caratteri genetici, il mandorlo poteva, quindi, essere propagato per seme e coltivato senza bisogno che dalla Cina arrivasse l’invenzione dell’innesto che consentiva all’uomo di scegliere la chioma dell’albero da coltivare.

Le mandorle furono subito apprezzate per l’elevato valore nutritivo e per la capacità di resistere inalterate ai lunghi viaggi e alle grandi distanze. In Egitto accompagnavano il viaggio eterno dei faraoni – nel 1325 a.C. ne fu deposto un piccolo mucchio nella tomba di Tutankhamon – lungo le rotte mediterranee seguirono l’espandersi dei commerci fenici e della civilizzazione greca. I romani che molto le apprezzavano le chiameranno nuces grecae a indicare quella che ritenevano fosse l’originaria provenienza. Ma al riconoscimento del valore nutritivo e commerciale si accompagnava sempre quello estetico e simbolico che derivava dalla precoce fioritura e che aveva colpito i suoi primitivi ammiratori nelle montagne asiatiche. Avrebbe scritto Simone Weil: «stelle e alberi da frutto in fiore. La permanenza totale e la fragilità estrema danno ugualmente il senso dell’eternità».

Nella cosmogonia frigia il mandorlo era il padre di tutte le creature, primo a ribadire la vita dopo la morte dell’inverno. Nel Vecchio Testamento



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