Andare per ghetti e giudecche by Anna Foa

Andare per ghetti e giudecche by Anna Foa

autore:Anna, Foa [Foa, Anna]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Storia, Fuori collana
ISBN: 9788815320452
editore: Societa editrice il Mulino Spa
pubblicato: 2014-10-14T22:00:00+00:00


10. Ettore Roesler Franz, Via Rua nel Ghetto di Roma, in fondo il Portico d’Ottavia, 1880 ca.

Il ghetto aveva cinque portoni, il principale era su piazza Giudia (dal lato nord), due agli estremi di via Fiumara, altri due rispettivamente a piazza della Pescaria e davanti a palazzo Savelli. Con l’estensione leonina, furono aggiunti altri tre portoni, due su via di Sant’Angelo in Pescheria, inglobata al ghetto, e una a piazza Mattei. Le sinagoghe, che all’inizio del Cinquecento erano nove o dieci, divennero inizialmente sette, poi nel 1557 scomparve anche la Scola Tedesca dopo che vi fu scoperto un libro ebraico proibito. Nel 1566, sotto Pio V, restavano cinque sinagoghe che furono accorpate in un unico edificio, detto appunto le Cinque Scole: Tempio, Nova, Siciliana, Castigliana, Catalana, denominazioni che riflettono le diverse origini e i diversi rituali dei loro membri, spagnoli, italiani, francesi. L’edificio si trovava sul margine nordoccidentale del ghetto, ed era costituito da due edifici diversi congiunti tra piazza delle Scole, via Catalana e via Fiumara.

Per trasformare questo spazio in un recinto destinato agli ebrei, dove i cristiani non potevano risiedere, era stato necessario abbattere alcune case e chiese, e spingere fuori dal recinto del ghetto i cristiani che vi abitavano. Per supplire al divieto di proprietà, a Roma come negli altri ghetti italiani fu riadattato un antico strumento giuridico ebraico, la cazacà, una sorta di possesso, che poi si trasformò nello jus cazacà, che poteva essere venduto, ipotecato, trasmesso in eredità. Nel Seicento, si arriverà a trasmettere in eredità porzioni piccolissime di una cazacà, addirittura uno spazio letto. Per far posto al crescente sovraffollamento, le case erano altissime, fino a sei, sette piani, con soffitti bassissimi, piene di tramezzi e aggiunte di ogni tipo. Case di questo tipo sono ancora visibili nel ghetto di Venezia. La parte più povera del ghetto era quella vicino al Tevere, su via Fiumara e le viuzze adiacenti, dove a ogni piena (non esistevano ancora gli argini, costruiti solo a fine Ottocento) il fiume inondava i piani più bassi e gli scantinati.

La peste del 1656, che infierì con particolare virulenza sul ghetto, pose fine per qualche decennio al sovraffollamento. Molte case restarono sfitte, anche se la comunità, responsabile collettivamente degli affitti, dovette pagare anche per gli appartamenti vuoti. Con il finire del secolo, nonostante la tendenza da parte degli ebrei più benestanti a lasciare Roma, il ghetto si popolò di nuovo oltre misura. Sembra comunque, nonostante le cifre più alte fornite da alcuni studiosi e le immagini datene dalle testimonianze del tempo, che la sua popolazione non abbia mai superato i cinquemila abitanti.

Ma com’era la vita degli ebrei nel ghetto, quale la loro percezione, quali le continuità e le rotture rispetto al periodo che precede la chiusura? La continuità delle istituzioni comunitarie è un dato di fatto. Inoltre inizialmente mancò nel mondo ebraico la consapevolezza piena della frattura che il ghetto avrebbe determinato nella sua esistenza. Il ghetto fu a lungo visto come un provvedimento provvisorio, destinato a scomparire con il cambiamento dei pontefici o con un aumento dei contributi da pagare alla Curia.



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