Aristotele e il giavellotto fatale by Margaret Doody

Aristotele e il giavellotto fatale by Margaret Doody

autore:Margaret Doody [Doody, Margaret]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788838916229
editore: Sellerio editore
pubblicato: 2000-06-15T16:00:00+00:00


Il cappello di Aristotele

di

Luciano Canfora

Questo racconto avrebbe potuto intitolarsi Il cappello di Aristotele, ma sarebbe stato un titolo troppo scoperto. Solo alla fine il lettore dovrà scoprire che la chiave è un dettaglio minimo, lasciato quasi scivolare inosservato, al principio del racconto, quando si mettono i pezzi sulla scacchiera: «[Il cappello], a sghimbescio per il forte vento e l’acqua, gli conferiva [ad Aristotele] un’aria dissoluta e scaltra. “Non credo che quel cappello sia adatto a te”, dissi. “Cosa? Non sento”, mi rispose». Il cappello gli copriva le orecchie. È lo stesso Aristotele, alla fine del racconto, a chiarire il nesso tra l’inchiesta, di cui è stato inopinatamente investito, ed il suo cappello: «Mi sono ricordato di una cosa che mi hai detto stamattina – o meglio, di qualcosa che non ho sentito – quando avevo il cappello sulle orecchie».

Perlomeno da giovane, Aristotele era piuttosto vanesio. Attento, pare, soprattutto al taglio dei capelli, a quanto attestano biografi maliziosi o malevoli. Insomma, non era certo «dissoluto e scaltro», come spiritosamente scrive Margaret Doody, ma attento alla esteriorità e alla eleganza, sì, anche leziosa. Un tratto alla Holmes, archetipo di questo Aristotele «detective» di Margaret Doody.

In Uno studio in rosso (1886-1887), che è come un «manuale» elaborato da Arthur Conan Doyle all’atto di dar vita a Holmes, Holmes (il quale peraltro sentenzia spesso) enuncia due criteri: a) «È un errore gravissimo quello di formulare ipotesi prima di avere tutti gli indizi»; b) «Quando un fatto sembra smentire una lunga catena di deduzioni, lo si può invariabilmente interpretare in altro modo». Alle prese con la micidiale traiettoria del giavellotto, Aristotele tace, non lascia trapelare alcuna ipotesi, durante tutta la serie di ispezioni, interrogatori, sopralluoghi cui si dedica. Per quanto tremebondi, o arroganti, o compiacenti siano i giovanotti che sottopone a scrutinio, non apre spiragli sull’idea che si viene formando. Solo alla fine dirà: «Avrei potuto essere meno duro con Periandro»; ma di tal durezza non si era accorto il lettore. Talvolta Holmes è più ciarliero, sia pure al cospetto del solo Watson, e comunque quando è convinto di avercela ormai fatta. Ma nel «canto del cigno», nella fosca atmosfera del Mastino dei Baskerville, non concede neanche a Watson, fin quasi all’ultimo, vere «indiscrezioni» sulle proprie ipotesi (e per due terzi del romanzo Watson lavora praticamente al buio, tanto da immaginare il suo «capo» Holmes là dove non è!). Comunque, nel breve giro di un racconto è più facile assegnare a Holmes/Aristotele un comportamento «ermetico» e rigorosamente riservato.

«La catena di deduzioni» qui non è tanto lunga, ma è ben consistente. Tutte le testimonianze, rese senza reciproche interferenze, portano ad una conclusione univoca: Sogene, il giovane ucciso, si è andato inspiegabilmente a collocare nella traiettoria del giavellotto proprio nel momento dell’ultimo lancio. Com’è stato possibile? Aristotele concluderà: «Sogene ha fatto, sì, un errore, ma all’errore è stato indotto». Tutti i giovani frequentatori del ginnasio dove è avvenuto il misfatto sono agili di corpo e svegli di mente; tutte le tracce – tra loro coerenti – portano



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