La preghiera della letteratura by Andrea Caterini

La preghiera della letteratura by Andrea Caterini

autore:Andrea Caterini [Caterini, Andrea]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Fazi Editore
pubblicato: 2016-04-12T22:00:00+00:00


La santità

Forse davvero la poesia è tale quando disarma. E se il dono, la grazia ricevuta della parola è segno e significato del tempo che si manifesta, come dire l’accadere che interrompe la sua linearità, o l’idea che il tempo sia una progressione, allora la poesia è il tempo della parola che nasce e si conserva, e in quanto nascita è creazione. Ma, appunto, creazione di un tempo che se non è progressione è invece nascita; una nascita che si perpetua – nuda ed eterna. Ed è così che Carlo Betocchi visse sempre la poesia, ogni poesia che scriveva, come fosse l’accadimento del tempo, la nascita non solo sua, del soggetto, ma di tutte le cose, del soggetto insieme e in relazione alle cose. Betocchi è poeta atipico. Partecipò certamente alla corrente ermetica di radice fiorentina. Ma a guardare la sua esperienza a confronto di quella di poeti a lui amici, come ad esempio Mario Luzi, ci si accorge immediatamente che la sua ricerca aveva un carattere non assimilabile a corrente alcuna. Lui, che amava più gli uomini semplici che gli intellettuali, poiché ammirava la dignità con la quale resistevano ai giorni, mentre quotidianamente li osservava lavorare in quei cantieri dove anch’egli operava, non poteva certo ammettere una vita che fosse esclusivamente contemplativa. Rileggo questa poesia dalla sua raccolta forse più significativa, Un passo, un altro passo, sesto componimento della sezione che porta lo stesso titolo del libro, datato 1967; una poesia che piega le ginocchia perché non teme di pronunciare il vero:

E so quanto la vita sia discorde

con se stessa; il suo disegno

intricato; il suo discorso enigmatico.

La guardo e ne raccolgo la figura,

le credo e non le credo, anche il dolore

ha due volti, anche l’amore: resto

così, stordito, avvolto in questo slittare

della coscienza che quanto più sa,

meno è tranquilla. Ma non cedo:

dal sapere il comprendere deduco;

dal comprendere il gemere. Sospiro,

temo: e insieme sento di meritare,

dal patire, in esso inabissandomi,

una sostanza men fievole, un’unità

in cui spero nel mio dolore,

una speranza diversa, un volto

umiliato dal non conoscere più,

dall’aver fede, soltanto fede,

come grido che tace e ha la sua pace.

Dimenticarsi per un attimo di se stessi. Ma sarebbe meglio dire: dimenticarsi, per un giorno solo almeno, del proprio dolore. Vengono in mente i versi di una poesia di Beppe Salvia – che a Betocchi ha sicuramente guardato, fosse anche solo per il suo francescanesimo, per quella svestizione che rende nuda la parola, e la vita. Ho sempre creduto che la grandezza della poesia di Salvia si manifestasse in una manciata di componimenti, che è possibile leggere in Cuore (cieli celesti), il libro che pubblicò a tre anni dalla morte (avvenuta nel 1985) il critico Arnaldo Colasanti – che con Salvia, Giuseppe Salvatori, Claudio Damiani e Paolo Del Colle aveva fondato la rivista semiclandestina «Braci». In quei componimenti si comprende che Salvia ha una chiarità espressiva che appartiene alla visione, ma come se questa gli provenisse interamente da una nudità raggiunta (una nudità che disarma) che lo rende privo di ogni strumento di difesa dal mondo.



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